Il
saggio di Norberto Bobbio Elogio della mitezza, pubblicato per la prima
volta nel 1993 e poi confluito con altri scritti nella raccolta Etica e
politica, nasce dal testo -riveduto e aggiornato- di una sua conferenza del
1983.Vi
si affronta il tema prettamente filosofico della virtù, una questione
che da Aristotele -Etica nicomachea- in avanti, la filosofia ha
colpevolmente trascurato o quantomeno ha affrontato dal punto di vista per così
dire pratico, facendola coincidere con l’adempimento al dovere (si veda
Kant).
Virtù è tutto ciò che tende al bene e rifugge dal
male: la temperanza, la bontà, la tolleranza, la generosità, la mitezza...Prescindendo
dalla distinzione classica tra virtù individuali e virtù sociali,
come pure da quella tra virtù etiche e virtù dianoetiche, Bobbio
preferisce ricorrere all’insolita classificazione delle virtù -classificazione puramente analitica e non
assiologica- distinguendo tra quelle che gli definisce forti
e il gruppo delle virtù cosiddette deboli.Da
un lato vi sono le virtù come il coraggio, la fermezza, la prodezza,
l’ardimento, l’audacia…la liberalità, la clemenza…che sono tipiche dei potenti
(potremmo anche chiamarle “virtù regali” o “signorili”
(…), cioè di coloro che hanno l’ufficio di governare, dirigere, comandare,
guidare, e la responsabilità di fondare e mantenere gli stati (…). Dall’altro
vi sono le virtù, come l’umiltà, la modestia, la moderazione, la verecondia (…)la
mansuetudine, la dolcezza e la mitezza, che sono proprie dell’uomo privato,
dell’insignificante, dell’inappariscente, di colui che nella gerarchia sociale
sta in basso…Chiamo “deboli” queste virtù, non perché le
consideri inferiori o meno (…) apprezzabili, ma perché caratterizzano
quella parte della società dove stanno gli “umiliati” (…) coloro
che muoiono senza lasciare altro segno su questa terra che una croce con nome e
data in un cimitero.
N.
Bobbio, Elogio della mitezza, da Elogio della mitezza e altri scritti
morali, edizione digitale Italian Edition.
Coraggio,
audacia, fermezza, forza, determinazione sono le virtù dei forti, vale a
dire di coloro che governano, comandano, decidono spesso sulla pelle degli
altri e talvolta persino ricorrendo alla violenza, tradendo o frodando (come il
principe un po’ volpe e un po’ leone di Machiavelli), se ciò è per il bene
dello Stato.Quando
il potente lo voglia, e solo nel caso in cui non comporti per lui e per il
suo potere danni collaterali, egli potrà dimostrarsi clemente e dunque non
infierirà sul nemico o sul sottoposto; potrà mostrarsi giusto o liberale; ma
mai sarà umile, dolce, moderato o mite, perché umiltà, dolcezza,
moderazione e mitezza non si addicono al potere, esse sono le virtù dei
deboli, degli ultimi, di quelli che nella Storia passano senza lasciar
traccia di sé.
Tra
le virtù, la più impolitica di tutte, vale a dire quella che meno di
ogni altra si addice al potere e a chi lo esercita è la mitezza: si è mai visto
nella Storia un potente-mite? È una contraddizione in termini.Posso
dire di aver scoperto la mitezza nel lungo viaggio di esplorazione oltre la
politica. Nella lotta politica, anche in quella democratica, e qui intendo per
lotta democratica la lotta per il potere che non ricorre alla violenza, gli
uomini miti non hanno alcuna parte.
Ibid A
considerare lo spettacolo che la politica offre di sé e a ripercorrere la
Storia -l’immenso mattatoio
in
cui si consuma il sacrificio di popoli, stati e individui (cfr, Hegel Lezioni
sulla filosofia della storia)- niente è più lontano dalla violenza e
dall’arroganza della politica come la mitezza. Il
mite non entra in rapporto con gli altri con il proposito di competere, non
desidera ricchezze, non è interessato al potere.Il mite rinuncia alla lotta, tuttavia
non come il remissivo che vi rinuncia per debolezza o per paura: egli rifiuta la distruttiva
gara della vita e per il potere per assoluta assenza in lui di vanagloria, la
stima esagerata di sé e delle proprie forze che sempre spinge gli uomini a
voler primeggiare (Hobbes, Leviatano).Il
mite non è vendicativo né astioso; non rimugina sulle offese subite; non medita
ritorsioni secondo la logica del tu l’hai fatta a me, dunque io la faccio a
te; non apre mai il fuoco e se lo aprono gli altri, non si lascia
bruciare anche quando non riesce a spegnerlo. Attraversa il fuoco senza
bruciarsi, le tempeste dei sentimenti senza alterarsi, mantenendo la propria
misura, la propria compostezza, la propria disponibilità (cfr, Bobbio, Elogio
della mitezza).Il
mite non è nemmeno un umile, non nel senso in cui cristianamente è intesa
l’umiltà, sorta di mestizia che nasce dalla consapevolezza della propria
finitezza-impotenza; al contrario, il mite è ilare perché, lasciando che
l’altro sia com’è, anche quando l’altro è violento o arrogante, egli è in
pace con se stesso e con il mondo.Avete
capito: identifico il mite con il nonviolento, la mitezza con il rifiuto di esercitare la violenza contro chicchessia. Virtù dunque non politica la mitezza. O addirittura, nel mondo insanguinato dagli odii di grandi (e
piccoli potenti), l’antitesi della politica.
Ibid La
mitezza è il sogno utopistico di un mondo non violento, un mondo senza odio,
senza guerre, senza soprusi, senza vincitori né vinti.
È la mitezza la più impolitica delle virtù?
Da un lato vi sono le virtù come il coraggio, la fermezza, la prodezza, l’ardimento, l’audacia…la liberalità, la clemenza…che sono tipiche dei potenti (potremmo anche chiamarle “virtù regali” o “signorili” (…), cioè di coloro che hanno l’ufficio di governare, dirigere, comandare, guidare, e la responsabilità di fondare e mantenere gli stati (…). Dall’altro vi sono le virtù, come l’umiltà, la modestia, la moderazione, la verecondia (…)la mansuetudine, la dolcezza e la mitezza, che sono proprie dell’uomo privato, dell’insignificante, dell’inappariscente, di colui che nella gerarchia sociale sta in basso…Chiamo “deboli” queste virtù, non perché le consideri inferiori o meno (…) apprezzabili, ma perché caratterizzano quella parte della società dove stanno gli “umiliati” (…) coloro che muoiono senza lasciare altro segno su questa terra che una croce con nome e data in un cimitero.
Posso dire di aver scoperto la mitezza nel lungo viaggio di esplorazione oltre la politica. Nella lotta politica, anche in quella democratica, e qui intendo per lotta democratica la lotta per il potere che non ricorre alla violenza, gli uomini miti non hanno alcuna parte.
Avete capito: identifico il mite con il nonviolento, la mitezza con il rifiuto di esercitare la violenza contro chicchessia. Virtù dunque non politica la mitezza. O addirittura, nel mondo insanguinato dagli odii di grandi (e piccoli potenti), l’antitesi della politica.
All’elogio
della mitezza di Bobbio, Gustavo Zagrebelsky risponde
con È la mitezza la più impolitica delle virtù? Se
la storia del mondo ci dice che la politica non è (mai stata) mite, non è
perchè non lo possa essere, ma perché le società sono state violente. È la
storia dei rapporti umani, siano essi politici o sociali, che ha sempre mancato
di quelle virtù che raccogliamo sotto il nome di mitezza. Chi vuole promuoverla
effettivamente, deve operare e socialmente e politicamente…Possiamo
immaginare, senza cadere nel ridicolo, discorsi di mitezza in un campo di
sterminio? Tutti gli ambienti sono compatibili con la mitezza? Auschwitz lo
era?
G. Zagrebelsky, È la mitezza la più impolitica delle virtù? da Elogio della
mitezza e altri scritti morali, edizione digitale Italian Edition.
Se
lo stato delle cose è -oggi ancora più che quarant’anni fa- tale da escludere
la mitezza come virtù politica come nell’idea di Bobbio, ciò non
significa -spostando la riflessione dal piano fattuale a quello del dover
essere- che debba essere necessariamente così: la Storia ci dice ciò che è
stato finora, non può dirci ciò che sarà. Questa la prima osservazione di Zagrebelsky.In
secondo luogo, si chiede Zagrebelsky, è possibile una società di uomini miti
quando il potere è violento?Se
la mitezza è la disposizione a lasciare che l’altro sia com’è, persino quando è
arrogante e violento, non c’è il rischio che essa diventi acquiescente e
passiva accettazione dell'ingiustizia e del sopruso? Non rasenta l’imbecillità
chi subisce la violenza senza opporre resistenza? Porgere l’altra guancia è la soluzione?Il
deportato di Auschwitz, picchiato, affamato, psicologicamente ridotto ad un
nulla, subì tutto il male del mondo, ma certamente non lo fece per mitezza (e nemmeno per
scelta).
Se
la storia del mondo ci dice che la politica non è (mai stata) mite, non è
perchè non lo possa essere, ma perché le società sono state violente. È la
storia dei rapporti umani, siano essi politici o sociali, che ha sempre mancato
di quelle virtù che raccogliamo sotto il nome di mitezza. Chi vuole promuoverla
effettivamente, deve operare e socialmente e politicamente…
Possiamo
immaginare, senza cadere nel ridicolo, discorsi di mitezza in un campo di
sterminio? Tutti gli ambienti sono compatibili con la mitezza? Auschwitz lo
era?
Quando
la società si fa violenta, quando la politica si alimenta di questa violenza (…)
davanti al mite due strade si aprono: perseverare
nella mitezza lasciandosi sommergere dalla violenza, oppure contraddirla per il
momento, combattendo contro i violenti, scendendo cioè sul loro stesso piano.
La prima opzione è quella della speranza: la speranza nella Provvidenza divina
che, alla fine di tutto, farà prevalere il bene sul male…Ma se non si ha questa
speranza? (…) Allora anche i miti non disdegneranno di uscire dalla loro
indole profonda e indossare quella dei loro nemici. Si tratta di combattere una
buona battaglia che, nei risultati sperati, non contraddice affatto, ma
ribadisce la loro fedeltà alla mitezza. Quando ciò accadesse, quando ciò
accadrà, bisognerebbe, bisognerà temere l’ira dei miti.
Ibid In una una società e di fronte ad un potere che opprimono, umiliano, emarginano,
zittiscono; quando in gioco ci sono la libertà, i diritti o la vita stessa, di
due l’una: o confidare cristianamente nella Provvidenza (o nell’uomo della
Provvidenza) e attendere che essa finalmente metta le cose a posto decretando
la vittoria del bene sul male, oppure dare -per così dire- una mano
alla Provvidenza dismettendo l’abito della mitezza e passando all’azione.Una
volta fu chiesto al professor Bobbio in cosa egli avesse speranza. “La
speranza è una virtù teologale”, fu la risposta (…). Sulla
premessa di questa risposta, non avrei dubbi nel dire che anche lui sarebbe
stato dalla parte di quanti pensano che, superato il limite, miti o non miti,
si deve cessare di subire e passare all’azione.
Ibid Insomma,
la mitezza deve avere un limite: superato quel limite, occorre passare all'azione.Resta
da capire come e in quali forme agire. Zagrebelsky, costituzionalista e uomo del dialogo, non può che rifiutare l’azione
violenta anche quando essa sia a difesa della libertà e dei diritti: la
ribellione deve -dovrebbe sempre- avvenire sul terreno della legalità, dunque nel rispetto delle
leggi e in primo luogo della Costituzione; qualora non fosse così, sarebbe da temere l'ira dei miti.
Cosa
fare e come agire, invece, quando non le leggi non siano conformi alla Costituzione e non tutelino adeguatamente i diritti? Occorre osservarle nella mite attesa che la Corte costituzionale le valuti e poi si pronunci oppure, assumendone piena responsabilità e rischiando in
prima persona, a quelle leggi è giusto disobbedire per evidenziarne le mancanze? È grazie alla disobbedienza e alla battaglia di alcuni se oggi -sia pure non senza difficoltà- a chi è affetto da patologia irreversibile -causa di intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche- si va riconoscendo il diritto di rifiutare il trattamento sanitario e di ricorrere al suicidio medicalmente assistito; è per la disobbedienza di altri se, a fronte di regole quantomeno confuse, ogni giorno decine di migranti sono soccorsi/salvati senza se e senza in quel Mediterraneo della speranza...
Quando la società si fa violenta, quando la politica si alimenta di questa violenza (…) davanti al mite due strade si aprono: perseverare nella mitezza lasciandosi sommergere dalla violenza, oppure contraddirla per il momento, combattendo contro i violenti, scendendo cioè sul loro stesso piano. La prima opzione è quella della speranza: la speranza nella Provvidenza divina che, alla fine di tutto, farà prevalere il bene sul male…Ma se non si ha questa speranza? (…) Allora anche i miti non disdegneranno di uscire dalla loro indole profonda e indossare quella dei loro nemici. Si tratta di combattere una buona battaglia che, nei risultati sperati, non contraddice affatto, ma ribadisce la loro fedeltà alla mitezza. Quando ciò accadesse, quando ciò accadrà, bisognerebbe, bisognerà temere l’ira dei miti.
Una volta fu chiesto al professor Bobbio in cosa egli avesse speranza. “La speranza è una virtù teologale”, fu la risposta (…). Sulla premessa di questa risposta, non avrei dubbi nel dire che anche lui sarebbe stato dalla parte di quanti pensano che, superato il limite, miti o non miti, si deve cessare di subire e passare all’azione.
Nessun commento:
Posta un commento