Letteratura

V. Alfieri, tirannide e libertà.


Tra le opere politiche dell’Alfieri, il breve trattato Della tirannide (1777) è la più significativa per la passione e l’impeto rivoluzionario che la pervadono. 
Nel primo dei due libri che compongono l’opera, Alfieri definisce la tirannide identificandola in “ogni qualunque governo in cui, chi è preposto alla esecuzion delle leggi” (Cfr: libro I, cap. 2), di fatto si colloca al di sopra di esse infrangendole, interpretandole a proprio uso e consumo o applicandole arbitrariamente con sicurezza d’impunità.
Indipendentemente dalla forma di governo, c’è tirannide ogniqualvolta l’esercizio del potere comporti ingiustizia, corruzione, negazione dei diritti.
 
Non si è mai visto nella Storia un sovrano che abbia anteposto il bene comune e la giustizia al proprio utile, non esistono tiranni buoni: chiunque detenga il potere ha il solo scopo di conservarlo, complici magistrati corrotti, spie, soldati pronti ad intervenire con le armi, cortigiani servili. Le stesse monarchie illuminate sono tirannidi mascherate, ancor più pericolose di quelle palesemente oppressive perché, nascondendosi dietro qualche riformina liberale, addormentano le coscienze e neutralizzano il dissenso.
 
La tirannide si regge sulla paura e sulla viltà: i giusti hanno paura del tiranno e delle sue leggi perché entrambi violenti, i vili al contrario s’ingraziano il potere schierandosi opportunisticamente dalla sua parte e alimentandone la protervia.
 
Tra i vili della peggior specie, feccia della feccia, ci sono i soldati mercenari che spogliatisi del nome di contadini di cui erano indegni, sprezzano i loro eguali e li reputano assai di meno di loro”.
 
Questi prepotenti, o siano volontariamente o sforzatamente arruolati, sogliono essere, quanto ai costumi, la piú vile feccia della feccia della plebe; e sí gli uni che gli altri, appena hanno rivestita la livrea della loro duplicata servitú, fattisi orgogliosi, come se fossero meno schiavi che i loro consimili,. E in fatti, i veri contadini coltivatori nella tirannide si dichiarano assai minori dei contadini soldati, poiché sopportano essi questa genía militante, che ardisce disprezzargli, insultargli, spogliargli ed opprimerli. 
V. Alfieri, Della tirannide, libro I, Cap. III
  
Doppiamente servo, il suddito-soldato inorgoglito dalla livrea che indossa, si fa braccio armato del tiranno e non esita ad insultare e opprimere i suoi stessi fratelli. 
Nel secondo libro, Alfieri si chiede quale debba e possa essere il comportamento dell’uomo che aspiri alla libertà sia pur trovandosi sotto una tirannide
 
Io dunque parlerò a quei pochissimi che, degni di nascere in libero governo fra uomini, si trovano dalla sempre ingiusta fortuna, direi balestrati, in mezzo ai turpissimi armenti di coloro che […] si vanno pure usurpando di uomini il nome.
E, dovendo io pur dimostrare a que’ pochissimi, in qual modo si possa vivere quasi uomo nella tirannide, sommamente mi duole che io dovrò dar loro dei precetti pur troppo ancora contrari alla libera loro e magnanima natura. … Ma poiché vano è del tutto il dolersi dei mali che sono o paiono privi di un presente rimedio, facciasi come nelle insanabili piaghe, a cui non si cerca oramai guarigione, ma solamente un qualche sollievo.
Dico pertanto che allorché l’uomo nella tirannide, mediante il proprio ingegno, vi si trova capace di sentirne tutto il peso, ma per la mancanza di proprie ed altrui forze vi si trova ad un tempo stesso incapace di scuoterlo, dée allora un tal uomo, per primo fondamentale precetto star sempre lontano dal tiranno, da’ suoi satelliti, dagli infami suoi onori, dalle inique sue cariche, dai vizi, lusinghe e corruzioni sue, dalle mura, terreno, ed aria perfino che egli respira e che lo circondano. In questa sola severa total lontananza […] ricerchi un tal uomo non tanto la propria sicurezza, quanto la intera stima di se medesimo e la puritá della propria fama […]
Debitamente cosí, ed in tempo, allontanatosi l’uomo da esse, sentendosi egli purissimo, verrá ad estimare se stesso ancor piú che fosse nato libero in un giusto governo; poiché liber’uomo egli ha saputo pur farsi in uno servile. Se costui, oltre ciò, non si trova nella funesta necessitá di doversi servilmente procacciare il vitto, poiché la nobile fiamma di gloria non è spenta affatto nel di lui cuore dalla perversitá de’ suoi tempi, non potendo egli assolutamente acquistare la gloria del fare, ricerchi con ansietà, bollore ed ostinazione quella del pensare, del dire e dello scrivere […] 
V. Alfieri, Della tirannide, libro II, cap. III
 
Benché la più verace gloria, cioè quella di farsi utile con alte imprese alla patria ed ai cittadini, non possa ver luogo in chi, nato nella tirannide, inoperoso per forza ci vive, nessuno tuttavia può contendere a chi ne avesse il nobile ed ardente desiderio, la gloria di morire da libero, abbenché pur nato servo. Questa gloria, quantunque ella paia inutile ad altrui, riesce nondimeno utilissima sempre, per mezzo del sublime esempio, e come rarissima, Tacitoquell’alto conoscitore degli uomini, la giudica pure esser somma. Alla eroica morte di Trasea, di Seneca, di Cremuzio e di molti altri romani proscritti dai loro primi tiranni, altro infatti non mancava che una piú spontanea cagione, per agguagliar la virtú di costoro a quella dei Curzi, dei Deci, e dei Regoli. E siccome, lá dove ci è patria e libertá, la virtù in sommo grado sta nel difenderla e morire per essa […]
Parmi adunque che, nei nostri scellerati governi, i pochissimi uomini virtuosi e pensanti vi debbano vivere da prudenti, finché la prudenza non degenera in viltá; e morire da forti, ogniqualvolta la fortuna o la ragione a ciò li costringa. Un cotal poco verrá ammendata cosí, con una libera e chiara morte, la trapassata obbrobriosa vita servile.
V. Alfieri, Della tirannide, libro II, cap.IV 
 
La riflessione alfieriana, che pure era partita dall’analisi di una realtà storicamente determinata -la realtà settecentesca- si sposta qui su un piano atemporale/sovrastorico in cui l’oppressione del potere e l’anelito di libertà, il tiranno e l’eroe diventano entità metafisiche e assolute, tratto distintivo della storia dell’umanità.  

Come una piaga per la quale non c’è guarigione ma solo il sollievo momentaneo di un qualche medicamento, il potere tirannico è difficilmente intaccabile, non vi sono margini per l’azione rivoluzionaria che modifichi lo stato delle cose. Vivere sotto tirannide è possibile a due sole condizioni: piegarsi supinamente e accettare lo status quo come fa l’uomo degli armenti -l’uomo comune-, o al contrario recuperare la propria dignità -come se si fosse nati in giusto governo- prendendo le distanze dal potere, stando sempre lontano dal tiranno, da’ suoi satelliti, dagli infami suoi onori, dalle inique sue cariche, dai vizi, lusinghe e corruzioni sue, dalle mura, terreno, ed aria perfino che egli respira. Non potendo conseguire la gloria del fare, si consegue così quella del pensare, del dire e dello scrivere nell’intimità incontaminata della solitudine. 
Il forte sentire
La libertà interiore è per pochi eletti, gli individui superiori dal forte sentire, uomini dall’animo grande: costretti a rinunciare alla verace gloria, cioè quella di farsi utile con alte imprese alla patria ed ai concittadini, gli uomini dal forte sentire resistono titanicamente al tiranno opponendogli il proprio libero pensiero e la propria gigantesca volontà.
In nome della libertà, l’eroe dal forte sentire è disposto a qualunque rinuncia, persino al sacrificio estremo del suicidio, quando fosse necessario: perché morire liberi è meglio che vivere da schiavi.
  
 
 

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