Il filosofo Epicuro non aveva dubbi: la felicità è nel piacere "catastematico" (statico) che consiste nell'assenza di dolore (aponia) raggiungibile soltanto attraverso la riduzione dei desideri: per essere felici come gli dei è sufficiente non avere fame, né sete, né freddo.
Diverso il parere dello stoico Seneca: il piacere procura felicità solo momentanea; la vera felicità è quella del sapiente che, imperturbabile di fronte a tutto, libero da condizionamenti esterni, domina le passioni e persegue il Bene vivendo secondo Ragione (De vita beata, De tranquillitate animi).
L’idea che la felicità sia lo stato interiore di chi è in pace con se stesso, si affranca dalle mondane frivolezze e dalle passioni/desideri perseguendo il Bene, è stabilmente al centro del pensiero medievale che, partendo dalla filosofia di Sant’Agostino e dei Padri della Chiesa, cristianamente individua la felicità nella contemplazione dell’unico Bene che è Dio: lo sa Dante e ne è convinto Petrarca.
Nel
Rinascimento la prospettiva sulla felicità comincia a cambiare e il Bene che fa felici è
sempre meno cosa astratta o trascendente per configurarsi come qualcosa di
tangibile hic et nunc.
Ne
è esempio Machiavelli, che pragmaticamente lega la possibilità di essere felici
alla realtà effettuale: si è felici quando
esistano condizioni di stabilità politica; quando non vi siano lotte fratricide,
pestilenze o catastrofi naturali; quando un principe risoluto e avveduto riesca
a tenere a freno l’avidità degli uomini; quando esistano argini che contengano
la furia della Fortuna (l'imprevedibilità della vita).
[…]
Malattie e povertà, esilio e prigione, perdita degli amici e dei parenti erano
esperienze comuni, e quando Poggio Bracciolini e altri umanisti scrivevano
della miseria della condizione umana, non avevano difficoltà a reperire gli
esempi antichi e moderni per illustrare la fragile e caduca condizione della
felicità terrena. Affinché nessuno potesse credere all’esistenza di una classe
di uomini privilegiati e indenni dalle disgrazie della condizione umana, gli
umanisti scrissero speciali trattati sull’infelicità dei dotti e dei cortigiani
e soprattutto dei principi…Quest’idea che l’uomo debba affrontare tante
vicissitudini mentre gli eventi della vita, buoni o cattivi che siano, sfuggono
in larga parte al suo controllo, fu interpretata da scrittori e intellettuali
del periodo nei modi più diversi e non sempre tra loro coerenti, ma che
comunque conferiscono una nota comune alla letteratura del Rinascimento.
P.O.
Kristeller, Il pensiero morale dell’Umanesimo rinascimentale, in Il pensiero
e le arti nel Rinascimento, Donzelli, Roma 1998.
L’uomo
rinascimentale si scopre fragile: gli eventi della vita -buoni o cattivi che siano- sfuggono in larga parte al suo controllo e la felicità è esposta ai capricci della Fortuna, fiume impetuoso che in un istante può trascinare via sogni, speranze, pace, ricchezze,
affetti.
L’idea rinascimentale che la felicità non si risolva nel piacere di un istante o nella stoica imperturbabilità che nega il mondo, ma al contrario risieda nelle concrete condizioni del reale è anche -e soprattutto- l’idea degli illuministi.
Pietro
Verri, Meditazioni sulla felicità
Fondatore
dell’Accademia dei Pugni e del periodico Caffè, centri
d’aggregazione di tutti gli illuministi lombardi, Pietro Verri (1728-1797) scrive
il Discorso sull’indole del piacere e del dolore in risposta al filosofo
francese Maupertuis.
Nel
suo Saggio di filosofia morale (1749), Maupertuis aveva sostenuto
che, considerando la durata e l’intensità di ogni singolo piacere e di ogni
singolo dolore, si deve concludere che i dolori superano sempre i piaceri: per
questo solo la religione è garanzia di felicità, perché indica la via verso
un’altra vita finalmente libera dal male e dal dolore.
Nel
Discorso sull’indole del piacere e del dolore Verri risponde che dolore e piacere non sono quantificabili, tuttavia poiché il
piacere non è altro che una momentanea cessazione di dolore, si può concordare con Maupertuis: i dolori superano sempre i piaceri.
Dunque
la somma totale delle sensazioni dolorose debb’essere in ogni uomo maggiore
della somma totale delle sensazioni piacevoli. Tale è la condizione dell’uomo;
ma la seducente e consolatrice speranza ci sta sempre al fianco sino all’ultimo
respiro, sparge di rose la scoscesa e laboriosissima via; per lei prendiamo
vigore e fiato; e s’ella ci spigne al di là del breve viver nostro, ci fa
ridenti attraversare fra le difficoltà più scabrose, e placidi soffrire anche i
dolori più forti.
P. Verri, Discorso sull’indole del piacere e del dolore
Dunque,
se nella vita di ciascuno il dolore supera sempre il piacere, è evidente che la
felicità non è nel piacere.
In cosa cosa consista la felicità e in quali termini essa sia possibile è spiegato nelle Meditazioni
sulla felicità -1763-, un breve opuscolo in cui Pietro Verri approda
alla sua -illuministica- definizione di felicità.
Il
fine del patto sociale è il benessere di ciascuno che concorre a formare la
società, il che si risolve nella felicità pubblica o sia la maggiore felicità
possibile divisa con la maggiore uguaglianza possibile. Tutte le leggi fattizie
devono dunque avere per iscopo la pubblica felicità, ed essendo interesse di
ogni membro di mantenere sì fatta unione, è interesse pure di ogni membro che
si osservino le leggi per le quali sussiste, poiché violandole ecciterebbe gli
altri a rimettere contro lui unitamente in vigore la primigenia legge della
forza.
La
legislazione più perfetta di tutte è quella in cui i doveri e i diritti di ogni
uomo sieno chiari e sicuri, e dove sia distribuita la felicità colla più grande
misura possibile su tutti i membri. La legislazione peggiore di tutte è invece
è quella dove i doveri e i diritti di ogni uomo sono incerti e confusi e la
felicità condensata in pochi, lasciando nella miseria i molti.
P. Verri, Meditazioni sulla felicità, a cura di G. Franciosi, Ediz. Ibis
La
vita è dispensatrice di sofferenze, lo si è detto fin qui: attendere la felicità
della vita ultraterrena certo rincuora e consola; coltivare lo spirito certamente rende migliori ma non risolve il problema
dell’infelicità sulla terra, non elimina le guerre, non debella l'odio, non sfama chi ha fame, non ripara chi ha
freddo, non libera lo schiavo.
La legislazione più perfetta di tutte è quella in cui i doveri e i diritti di ogni uomo sieno chiari e sicuri, e dove sia distribuita la felicità colla più grande misura possibile su tutti i membri. La legislazione peggiore di tutte è invece è quella dove i doveri e i diritti di ogni uomo sono incerti e confusi e la felicità condensata in pochi, lasciando nella miseria i molti.
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