Mai più senza maestri è il titolo di un breve saggio di Zagrebelskj: una riflessione attenta -talvolta ironica- sul ruolo dei maestri nella società di oggi, che tuttavia offre spunti di riflessione anche su altre questioni.
Sul maestro e sul rapporto con l’allievo si è detto e scritto
molto, perfino troppo: banalità, luoghi comuni, sentimentalismi, voli
pindarici, aforismi, metafore. Il tema invoglia...
G. Zagrebelskj,
Immagini, da Mai più senza maestri, ediz. digitale 2022, Il Mulino
Sul maestro e sul rapporto con l’allievo si è detto e scritto
molto, perfino troppo: banalità, luoghi comuni, sentimentalismi, voli
pindarici, aforismi, metafore. Il tema invoglia...
Sul maestro e sul rapporto con l’allievo si è detto e scritto molto, perfino troppo: banalità, luoghi comuni, sentimentalismi, voli pindarici, aforismi, metafore. Il tema invoglia...
Vero.
Vi sono
momenti nella vita di un maestro che lo stesso maestro -almeno quello che per
carattere ama la riservatezza e la sobrietà- eviterebbe volentieri: i
ringraziamenti/i saluti in occasioni ufficiali o pressoché tali; le adunanze ludico-celebrative; i discorsi
commemorativi, insomma tutte quelle situazioni traboccanti retorica in cui sul
maestro-sul professore che sta per migrare verso altra scuola; sul fortunato in
procinto di essere felicemente collocato a riposo; oppure su quello che non c’è
più perché è passato a miglior vita (succede), s’abbatte una valanga di
luoghi comuni, un profluvio di lodi imbarazzanti che lo descrivono come colui
che -unico e insostituibile per bravura e sensibilità- ha lasciato un segno
indelebile e per questo rimarrà nella memoria nei secoli dei secoli, amen.
Scherzi a
parte, insegnare è una cosa seria.
Insegnare significa lasciare un segno. Comprendiamo quanto grande
sia la responsabilità di un maestro…Tuttavia, che cosa significhi insegnare,
cioè “porre un segno” è tutt’altro che chiaro. Anzi, è un mistero. Come si
forma, dove si deposita e come si trasmette la conoscenza? Molti di coloro che
si sono occupati di insegnamento e pedagogia si sono posti il problema, in
termini filosofici e pratici.
Alternative
e responsabilità, Mai più senza maestri
Insegnare
è lasciare un segno, il che di per sé basta a caricare chi insegna di una
responsabilità enorme.
Tuttavia,
cosa significhi e in che modo porre un segno non è sempre chiaro:
istruendo o educando? Chi insegna deve trasmettere
conoscenze o valori? È il dilemma di sempre.
Da diversi
decenni la parola d’ordine è educare-formare: la scuola è comunità
educante, i percorsi d’apprendimento sono percorsi educativi-formativi,
gli insegnanti sono gli educatori per eccellenza (dopo la famiglia,
beninteso).
Insegnare significa lasciare un segno. Comprendiamo quanto grande sia la responsabilità di un maestro…Tuttavia, che cosa significhi insegnare, cioè “porre un segno” è tutt’altro che chiaro. Anzi, è un mistero. Come si forma, dove si deposita e come si trasmette la conoscenza? Molti di coloro che si sono occupati di insegnamento e pedagogia si sono posti il problema, in termini filosofici e pratici.
In subordine, l’insegnante deve istruire/trasmettere conoscenze: compito per il quale sembra essere sufficiente che egli padroneggi la materia del proprio insegnamento, che possegga un buon numero di informazioni sui contenuti e i metodi di apprendimento propri della sua disciplina, che sappia comunicarli, ma attenendosi scrupolosamente agli obiettivi prefissati dal Ministero, mettendo in atto le opportune strategie atte a promuovere il successo formativo entro i tempi prestabiliti e mai perdendo di vista che ciò che conta davvero sono le competenze.
Nella scuola di oggi le conoscenze sono importanti non di per sé (chi lo pensa commette eresia) ma in quanto funzionali alle competenze; in primo luogo quelle attinenti il profilo in uscita degli studenti, a latere tutte le altre: così, l’allievo dovrà saper produrre, saper fare, saper agire...
Che l’obiettivo sia stato raggiunto e l’allievo abbia con successo portato a compimento la scalata verso la competenza, sapendo egli fare, produrre e agire nella consapevolezza di sé, nel rispetto degli altri ecc. (questo, più o meno, il linguaggio in uso tra gli addetti ai lavori del comparto scuola), lo prova il voto scrupolosamente ricavato dalla media tra le insufficienze collezionate per aver egli preso a calci il compagno o aver strappato il libro di storia e le sufficienze conseguite quando, pentito e contrito, ha dimostrato di aver messo la testa a posto.
Questa la frustrante realtà in cui opera l’insegnante, oggi nient’altro che un
burocrate -e non per sua scelta-, costretto a rendicontare su cosa fa, su come
lo fa, sul perché, a quale scopo e, per giunta, dovendo misurare l’incommensurabile:
la crescita culturale, la maturazione di un essere umano.
Il maestro
è altra cosa, non si può non condividere l’idea di Zagrebelskj.
In primo
luogo il maestro non è -e non può essere- organico al sistema, finirebbe col
restarne schiacciato nella maniera di cui sopra.
Egli
inoltre si guarda bene dal voler educare, cosa pericolosamente vicina
all’ indottrinare.
I regini
totalitari non hanno dubbi su come si debba costruire “l’uomo nuovo” di cui hanno
bisogno…Anche nelle società libere, c’è una tendenza paternalistica animata
dalle migliori intenzioni ma, come si sa, di buone intenzioni è lastricata (…)
Ci si può limitare a ricordare le infinite discussioni circa la religione come
materia scolastica (…) o gli interrogativi che sono stati sollevati con
riguardo a un certo “documento d’indirizzo” emanato dal ministero
dell’istruzione a proposito della materia Cittadinanza e Costituzione. Lo
citiamo come esemplare dei pericoli di indottrinamento.
Istruire o
educare, Mai più senza maestri
Nei regimi
totalitari, l’insegnamento mira ad educare/plasmare gli individui secondo
principi che garantiscano la preservazione dello status quo; dunque i
contenuti, opportunamente selezionati tra i più adatti allo scopo, i metodi
coercitivi, le punizioni esemplari -impedendo di fatto il libero pensiero-,
concorrono a piegare le menti nella direzione voluta, insegnano l’obbedienza,
l’adesione acritica al principio di autorità, l’accettazione della tradizione,
il rifiuto di ogni forma di devianza.
Può
sorprendere che, come racconta Zagrebelskj, durante
la Rivoluzione francese, dunque proprio quando si innalzavano barricate in nome
della libertà e si poneva mano alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e
del cittadino, vi fosse chi -come Talleyrand- sosteneva che lo Stato dovesse
educare alla morale corrente (quella rivoluzionaria) giungendo così al
paradosso di un’educazione forzata ai rivoluzionari precetti di libertà
e giustizia. È lo stesso nonsense (al quale certa Storia recente ci ha
abituati) di chi sceglie la guerra come strumento per affermare o difendere la
pace, oppure usa la violenza per imporre il rispetto della legalità.
Incongruenze non da poco.
Da qui a
propugnare la creazione di un orwelliano Ministero della morale e
dell’istruzione sotto la sorveglianza dei rappresentanti della nazione, il
passo è breve e fu compiuto, per esempio, dal deputato alla Convenzione
Francois Lanthenas. (…)
Ibid
Che uno
stato autoritario voglia educare e non solo istruire, non sorprende. Preoccupa
-e un po’ sorprende (perché si è soliti pensare al totalitarismo come fatto
politico, mentre esiste anche un totalitarismo economico, ideologico,
tecnico-scientifico) che si ceda alla medesima tentazione anche in società
democratiche: il pericolo dell’indottrinamento è sempre dietro l’angolo e
Zagrebelskj ne scorge tracce qua e là intorno a noi.
Con
riferimento alla scuola, si vedano i programmi/ le linee-guida per
l’insegnamento di una materia da pochi anni entrata nel novero delle discipline
curricolari obbligatorie: al tempo in cui Zagrebelskj scriveva il suo
saggio andava sotto il nome di Cittadinanza e Costituzione, oggi,
rimanendo pressoché la stessa nei contenuti, è l’Educazione civica.
Attraverso idonei percorsi formativi che promuovano l’attitudine alla pacifica convivenza, al dialogo, alla tolleranza, la materia dovrebbe mirare -come ultima finalità- a formare il buon cittadino (nietzscheanamente verrebbe da chiedersi: buono a cosa?): il tutto per un totale (stratosferico!) di 33 ore annue, equamente ripartite tra tutti i docenti del consiglio di classe, previa opportuna azione di sensibilizzazione degli stessi.
Ora, nessuno oserà mai negare che pace, dialogo e gestione della conflittualità siano cose nobilissime, -anzi, ce n’è oggi urgente bisogno-, tuttavia:
A) lascia perplessi che si creda di poter liquidare la questione in sole 33 ore e che per le rimanenti 960 -circa- ciascun docente torni al suo solito tran-tran di burocrate- suo- malgrado sopra descritto;
B) fa sorridere ed è chiaramente un controsenso, che rispetto, tolleranza, dialogo, ecc. diventino contenuti disciplinari da far apprendere coercitivamente e dogmaticamente come qualunque altra nozione;
C) fa inorridire che si testi e infine si valuti quanto è stato appreso sull’essere cittadini liberi e consapevoli a suon di verifiche e voti che -attenzione!- incidono sulla media finale.
Il maestro che Zagrebelskj ha in mente non ha nulla a che vedere con tutto questo.
Ricorrendo all’etimologia -disciplina che dice molto non soltanto delle parole ma anche dei parlanti e di come essi nel tempo vadano caricando le parole di significati lontani da quelli originari- Zagrebelskj chiarisce un paio di cose sui maestri e sul loro magistero.
Magister (con i derivati: maestro, mastro,
master, maître) è generato da “magnus” e da “magis”,
dalla radice “magh”, comune nelle lingue indoeuropee. Indica
qualcosa di grande in tutti i sensi della parola: magno, magnifico, mago
(…). “Ter” (magis-ter) allude a sua
volta a un confronto o a un’opposizione, in ogni caso ad un rapporto tra due
entità: alter (altro tra due); neuter
(né l’uno né l’altro) (…). Dunque il magister è uno che è più
grande (…). Non c’è “magis” senza “minus”,
dunque senza una gerarchia lungo la quale scorre quella cosa misteriosa che
chiamiamo magistero.
Magister,
da Mai più senza maestri