Corre
l’anno 1348, la peste infuria e un’allegra brigata di dieci ragazzi si rifugia in
un casolare di campagna poco fuori Firenze per sfuggire all’epidemia. Per ingannare il tempo, a turno i ragazzi
raccontano delle novelle, 100 in totale: questa la cornice narrativa del Decameron
di Giovanni Boccaccio.
L’opera
è tra le più significative e originali del tardo Medioevo: l’uso di una lingua
destinata ad essere modello da imitare e calco per la futura lingua italiana;
la prosa elegante; lo stile ironico; lo sguardo attento che coglie i dettagli e
la vivacità della narrazione sono alcune delle caratteristiche che la rendono
un capolavoro.
L'umana commedia
L’amore,
la Fortuna, l’ingegno, la beffa sono i temi principali, pezzi di un
puzzle che, via via componendosi, disegna l’umana commedia della vita: una commedia
che se in molti casi ha la leggerezza del sorriso (come nella storia del cuoco
Chichibio o in quella di Calandrino e Buffalmacco con la loro elitropia), in
altri si tinge dei colori cupi dell’angoscia e del dolore come
nella novella “Lisabetta da Messina”.
…Erano
adunque in Messina tre giovani fratelli e mercatanti, e assai ricchi uomini
rimasi dopo la morte del padre loro, il quale fu da San Gimignano; e avevano
una lor sorella chiamata Elisabetta, giovane assai bella e costumata … E
avevano oltre a ciò questi tre fratelli in un lor fondaco un giovinetto pisano
chiamato Lorenzo, che tutti i lor fatti guidava e faceva; il quale, essendo
assai bello della persona e leggiadro molto, avendolo più volte Lisabetta
guatato, avvenne che egli le incominciò straniamente a piacere. Di che Lorenzo
accortosi e una volta e altra, similmente, lasciati suoi altri innamoramenti di
fuori, incominciò a porre l’animo a lei; e sì andò la bisogna che, piacendo
l’uno all’altro igualmente, non passò gran tempo che, assicuratisi, fecero di
quello che più disiderava ciascuno. E in questo continuando e avendo insieme
assai di buon tempo e di piacere, non seppero sì segretamente fare, che una
notte, andando Lisabetta là dove Lorenzo dormiva, che il maggior de’ fratelli,
senza accorgersene ella, non se ne accorgesse. …Poi, venuto il giorno, a’ suoi
fratelli ciò che veduto aveva la passata notte d’Elisabetta e di Lorenzo
raccontò; e con loro insieme, dopo lungo consiglio, diliberò di questa cosa,
acciò che né a loro né alla sirocchia alcuna infamia ne seguisse, di passarsene
tacitamente, ed’infignersi del tutto d’averne alcuna cosa veduta o saputa
infino a tanto che tempo venisse nel quale essi, senza danno o sconcio di loro,
questa vergogna, avanti che più andasse innanzi, si potessero torre dal viso. E
in tal disposizion dimorando, così cianciando e ridendo con Lorenzo come usati
erano, avvenne che, sembianti faccendo d’andare fuori della città a diletto
tutti e tre, seco menaron Lorenzo: e pervenuti in un luogo molto solitario e
rimoto, veggendosi il destro, Lorenzo, che di ciò niuna guardia prendeva,
uccisono e sotterrarono in guisa che niuna persona se n’accorse. E in Messina
tornatisi dieder voce d’averlo per lor bisogne mandato in alcun luogo…Non
tornando Lorenzo, e sollicitamente i fratei domandandone, sì come colei
a cui la dimora lunga gravava, avvenne un giorno che, domandandone ella molto
instantemente, che l’uno de’ fratelli disse: – Che vuol dir questo? che hai tu
a far di Lorenzo, che tu ne domandi così spesso? …
Avvenne
una notte che, avendo costei molto pianto Lorenzo che non tornava, e essendosi
alla fine piangendo adormentata, Lorenzo l’apparve nel sonno, pallido e tutto
rabbuffato, e …parvele che egli dicesse: – O Lisabetta, tu non mi fai altro che
chiamare… sappi che io non posso più ritornarci, per ciò che l’ultimo dì che tu
mi vedesti i tuoi fratelli m’uccisono –. E disegnatole il luogo dove sotterato
l’aveano, le disse che più nol chiamasse né l’aspettasse, e disparve. La
giovane… avuta la licenzia d’andare alquanto fuor della terra a diporto, in
compagnia d’una che altra volta con loro era stata e tutti i suoi fatti sapeva,
quanto più tosto poté là se n’andò, e tolte via foglie secche che nel luogo
erano, dove men dura le parve la terra quivi cavò; né ebbe guari cavato, che
ella trovò il corpo del suo misero amante in niuna cosa ancora guasto né
corrotto: per che manifestamente conobbe, essere stata vera la sua visione. Di
che più che altra femina dolorosa, conoscendo che quivi non era da piagnere, se
avesse potuto volentier tutto il corpo n’avrebbe portato per dargli più
convenevole sepoltura; ma veggendo che ciò esser non poteva, con un coltello il
meglio che potè gli spiccò dallo ’mbusto la testa, e quella in uno asciugatoio
inviluppata, e la terra sopra l’altro corpo gittata, messala in grembo alla
fante, senza essere stata da alcun veduta, quindi si dipartì, e tornossene a
casa sua. Quivi con questa testa nella sua camera, rinchiusasi, sopra essa
lungamente e amaramente pianse, tanto che tutta con le sue lagrime la lavò,
mille basci dandole in ogni parte. Poi prese un grande e un bel testo, di
questi ne’ quali si pianta la persa o il basilico, e dentro la vi mise fasciata
in un bel drappo; e poi messavi sù la terra, sù vi piantò parecchi piedi di
bellissimo bassilico salernetano, e quegli da niuna altra acqua, che o rosata o
di fior d’aranci o delle sue lagrime non innaffiava giammai. E per usanza avea
preso di sedersi sempre a questo testo vicina e quello con tutto il suo
desidèro vagheggiare, sì come quello che il suo Lorenzo teneva nascoso: e poi
che molto vagheggiato l’avea, sopr’esso andatasene cominciava a piagnere, e per
lungo spazio, tanto che tutto il basilico bagnava, piagnea. Il basilico, sì per
lo lungo e continuo studio, sì per la grassezza della terra procedente dalla
testa corrotta che dentro v’era, divenne bellissimo e odorifero molto; e
servendo la giovane questa maniera del continuo, più volte da’ suoi vicin fu
veduta. Li quali, meravigliandosi i fratelli della sua guasta bellezza e di ciò
che gli occhi le parevano della testa fuggiti, il disser loro: – Noi ci siamo
accorti, che ella ogni dì tiene la cotal maniera –. Il che udendo i fratelli e
accorgendosene, avendonela alcuna volta ripresa e non giovando, nascosamente da
lei fecero portar via questo testo; il quale, non ritrovandolo ella, con
grandissima instanzia molte volte richiese…. I giovani si meravigliavan forte
di questo addimandare, e per ciò vollero vedere che dentro vi fosse; e versata
la terra, videro il drappo e in quello la testa, non ancora sì consumata che
essi alla cappellatura crespa non conoscessero lei esser quella di Lorenzo. Di
che essi si meravigliaron forte, e temettero non questa cosa si risapesse: e
sotterrata quella, senza altro dire, cautamente di Messina uscitisi e ordinato
come di quindi si ritraessono, se n’andarono a Napoli. La giovane non restando
di piagnere, e pure il suo testo addimandando, piagnendo si morì, e così il suo
disavventurato amore ebbe termine. ..
Narrata
nella quarta giornata, la novella racconta l’infelice amore tra Lisabetta e
Lorenzo, un povero garzone.
Non
accettando la relazione della ragazza con uno spiantato, i fratelli di
Lisabetta si liberano di lui uccidendolo.
Una
notte, tra le lacrime, Lisabetta sogna l’amato che le indica il luogo dove è
sotterrato.
Ottenuto
il permesso per una passeggiata, la giovane si reca dove Lorenzo è sepolto, lo
dissotterra, recupera quel che può del cadavere e, rientrata a casa, nasconde
quei resti in un vaso di basilico.
Insospettiti
dal comportamento della ragazza, che accanto a quel vaso ogni giorno versa lacrime
disperate, i fratelli fanno sparire la pianta.
Lisabetta,
consumata da dolore inconsolabile, s’ammala e muore.
Avvenne una notte che, avendo costei molto pianto Lorenzo che non tornava, e essendosi alla fine piangendo adormentata, Lorenzo l’apparve nel sonno, pallido e tutto rabbuffato, e …parvele che egli dicesse: – O Lisabetta, tu non mi fai altro che chiamare… sappi che io non posso più ritornarci, per ciò che l’ultimo dì che tu mi vedesti i tuoi fratelli m’uccisono –. E disegnatole il luogo dove sotterato l’aveano, le disse che più nol chiamasse né l’aspettasse, e disparve. La giovane… avuta la licenzia d’andare alquanto fuor della terra a diporto, in compagnia d’una che altra volta con loro era stata e tutti i suoi fatti sapeva, quanto più tosto poté là se n’andò, e tolte via foglie secche che nel luogo erano, dove men dura le parve la terra quivi cavò; né ebbe guari cavato, che ella trovò il corpo del suo misero amante in niuna cosa ancora guasto né corrotto: per che manifestamente conobbe, essere stata vera la sua visione. Di che più che altra femina dolorosa, conoscendo che quivi non era da piagnere, se avesse potuto volentier tutto il corpo n’avrebbe portato per dargli più convenevole sepoltura; ma veggendo che ciò esser non poteva, con un coltello il meglio che potè gli spiccò dallo ’mbusto la testa, e quella in uno asciugatoio inviluppata, e la terra sopra l’altro corpo gittata, messala in grembo alla fante, senza essere stata da alcun veduta, quindi si dipartì, e tornossene a casa sua. Quivi con questa testa nella sua camera, rinchiusasi, sopra essa lungamente e amaramente pianse, tanto che tutta con le sue lagrime la lavò, mille basci dandole in ogni parte. Poi prese un grande e un bel testo, di questi ne’ quali si pianta la persa o il basilico, e dentro la vi mise fasciata in un bel drappo; e poi messavi sù la terra, sù vi piantò parecchi piedi di bellissimo bassilico salernetano, e quegli da niuna altra acqua, che o rosata o di fior d’aranci o delle sue lagrime non innaffiava giammai. E per usanza avea preso di sedersi sempre a questo testo vicina e quello con tutto il suo desidèro vagheggiare, sì come quello che il suo Lorenzo teneva nascoso: e poi che molto vagheggiato l’avea, sopr’esso andatasene cominciava a piagnere, e per lungo spazio, tanto che tutto il basilico bagnava, piagnea. Il basilico, sì per lo lungo e continuo studio, sì per la grassezza della terra procedente dalla testa corrotta che dentro v’era, divenne bellissimo e odorifero molto; e servendo la giovane questa maniera del continuo, più volte da’ suoi vicin fu veduta. Li quali, meravigliandosi i fratelli della sua guasta bellezza e di ciò che gli occhi le parevano della testa fuggiti, il disser loro: – Noi ci siamo accorti, che ella ogni dì tiene la cotal maniera –. Il che udendo i fratelli e accorgendosene, avendonela alcuna volta ripresa e non giovando, nascosamente da lei fecero portar via questo testo; il quale, non ritrovandolo ella, con grandissima instanzia molte volte richiese…. I giovani si meravigliavan forte di questo addimandare, e per ciò vollero vedere che dentro vi fosse; e versata la terra, videro il drappo e in quello la testa, non ancora sì consumata che essi alla cappellatura crespa non conoscessero lei esser quella di Lorenzo. Di che essi si meravigliaron forte, e temettero non questa cosa si risapesse: e sotterrata quella, senza altro dire, cautamente di Messina uscitisi e ordinato come di quindi si ritraessono, se n’andarono a Napoli. La giovane non restando di piagnere, e pure il suo testo addimandando, piagnendo si morì, e così il suo disavventurato amore ebbe termine. ..
La
storia di Lisabetta mette in scena sentimenti e paure universali: vi è l’amore
innanzitutto, un amore grande e ostinato che sopravvive alla
morte; c’è il dolore della perdita, straziante senso di vuoto che ognuno di noi
sperimenta nella vita; infine è presente l’orrore per e della
morte, che nella novella è ritratta nello scempio di un cadavere tuttavia
ancora riconoscibile per la folta capigliatura di un tempo...
Decameron: dalla parte della borghesia?
Accanto e parallelamente alla riflessione sulla vita e sull’uomo tout court (come direbbe Machiavelli, nel tempo variano gli accidenti, ma non muta la sostanza né delle cose né dell’uomo), l’opera offre uno spaccato della società del tempo, ritraendone usi/costumi, forme del pensiero, dinamiche sociali.
In particolare, il Decameron dà conto della distanza che nel XIV secolo separa la nobiltà in declino e la borghesia in ascesa: l’una sempre più squattrinata ma ostinatamente arroccata nella difesa dei propri privilegi, l’altra sempre più danarosa, sempre meno incline a riconoscere nel blasone una garanzia di superiorità, sempre più convinta che il valore della persona sia direttamente proporzionale alla quantità di ricchezza posseduta (i fratelli di Lisabetta, ricchi mercatanti, non esitano ad uccidere Lorenzo perché povero e per questo ritenuto indegno).
Nel confronto-scontro tra la nobiltà improduttiva e il variopinto mondo di mercanti/bottegai intraprendenti dalla testa fina e dalla battuta pronta, Boccaccio non sembra avere dubbi da quale parte stare.
Nella novella “Chichibio e la gru”, ad esempio, la simpatia di Boccaccio è tutta per Chichibio, il cuoco che, non resistendo al pressing dell’amata, le fa assaggiare una coscia della gru appena cucinata per il nobile padrone, per questo rischiando guai grossi; lo soccorrono intelligenza e scaltrezza, qualità tipicamente borghesi, unitamente al pragmatismo che solo chi lavora possiede: e così, con un’intelligente e pronta battuta di spirito, Chichibio riesce ad evitare la punizione del padrone, a salvare il proprio posto di lavoro e a meritarsi il plauso dell'Autore.
Tuttavia, lo spessore morale di un uomo è un’altra cosa e sta nella gentilezza/nobiltà dell’animo, qualità di gran lunga superiore ad ogni altra.
D’animo nobile e gentile è Federigo degli Alberighi.
Federigo ama perdutamente Giovanna e per lei dilapida tutte le proprie ricchezze, riducendosi in miseria.
Intenerita dalla devozione e dalla tenacia di Federigo, Giovanna un bel dì si rende disponibile a pranzare presso la di lui dimora.
L'uomo, che
non ha nulla da mettere in pentola, non esita a sacrificare in nome dell’amore
l’unico bene rimastogli, il falco -fedele compagno di tante battute di caccia-
che arrostito al punto giusto è servito con tanto amore e con un tantino
di rimorso.
La nobiltà d’animo di Federigo è però qualità rara nel mondo canagliesco del Decameron.
Esemplare
di perfetta canaglia è il mercatante Ser Ciappelletto al quale è dedicata la prima novella del Decameron: egli è l'incarnazione della malvagità umana ma insieme l’esempio estremo della
spregiudicatezza talvolta immorale della nascente borghesia da cui, nella novella, Boccaccio prende le distanze.
Donnaiolo, bestemmiatore, avido, criminale privo di scrupoli, mentitore della peggior risma Ciappelletto, che dalla ragion pratica borghese è avvezzo all’inganno, esercita l’imbroglio anche quando, ormai prossimo alla morte, al frate che deve impartirgli l’estrema unzione confessa peccatucci risibili, ma con una contrizione degna di un santo: sì, ha commesso peccato di gola quella volta che, dopo la penitenza di un lungo digiuno, ha assaporato con gusto del pane con dell’ insalatuzza d’erbucce; ha peccato anche quella volta che ha maledetto un uomo che soleva picchiare la moglie; ha poi commesso peccato di avidità volendo racimolar denaro da donare ai bisognosi; ha commesso peccato di ira vedendo tutto il dì gli uomini fare sconce cose, non servare i comandamenti di Dio…andar dietro alle vanità e udendogli giurare e spergiurare. Quanto alle femmine, Ciappelletto con pudico imbarazzo e ancora una volta mentendo senza ritegno, ammette di non averne conosciute: egli è vergine come un neonato (Disse allora ser Ciappelletto: «Poiché voi di questo mi fate sicuro, e io il vi dirò: io son così vergine come io uscii del corpo della mamma mia»)
Il frate è commosso: mai prima d'ora si è imbattuto in un’anima così pura.
E così il perfido mercatante ser Ciappelletto, ingannatore di professione e quasi disumano per cattiveria, muore in odore di santità: il che è troppo persino per l'illuminato e accomodante Boccaccio.
Insomma: spirito d'iniziativa, intraprendenza, furbizia, pragmatismo sono qualità (tipicamente borghesi) apprezzabilissime, a patto che non travalichino certi limiti...