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Don Chisciotte, la follia di un sogno

 

Lo spagnolo Miguel de Cervantes (1547-1617) fu uomo e intellettuale sui generis.


La sua vita fu un susseguirsi di avventure e disavventure: condannato a seguito del ferimento di un rivale nel corso di un duello, nel 1569 fuggì dalla Spagna e riparò a Napoli; l’anno successivo combatté nella guerra contro l’impero ottomano a fianco della Spagna e dei suoi alleati e nel corso battaglia di Lepanto, gravemente ferito, prese la mano sinistra; qualche anno più tardi, durante un viaggio da Napoli verso la Spagna, fu catturato dai pirati e venduto come schiavo. Poté tornare solo 1580 in patria, dove visse in ristrettezze economiche fino alla pubblicazione del Don Chisciotte, l’opera che gli valse successo, riconoscimenti e agiatezza.


Don Chisciotte


Il romanzo si compone di due parti scritte e pubblicate in periodi diversi: l’una nel 1605, l’altra nel 1615.
 
Il personaggio protagonista è l’hidalgo Alonso Quijano: egli è a tal punto assorbito dalla lettura di romanzi cavallereschi che perde il senno e credendosi un valoroso cavaliere come i personaggi delle sue letture, si fa cavaliere errante. Scelto il nome di don Chisciotte e nominato scudiero il servo Sancio Panza, l’hidalgo-novello cavaliere parte in cerca di nemici dai quali difendere la patria e soverchiatori dai quali proteggere i deboli.


Inizia così l’avventura rocambolesca di don Chisciotte, che nella sua follia annulla la realtà oggettiva per crearne una che gli si adatti e che lo soddisfi: le osterie diventano castelli, i mulini a vento sono giganti da annientare, il catino di un barbiere è un leggendario elmo da conquistare, innocui frati sono rapitori di principesse.
 
Stando in questi ragionamenti videro in lontananza due frati  di san Benedetto a cavallo di due dromedari; chè così si potevano chiamare le mule da essi cavalcate. Avevano gli occhiali da viaggio, ed i lor parasoli, ed erano seguiti da un cocchio, con l’accompagnamento di quattro o cinque persone a cavallo, e di due mulattieri a piedi. Stava nel cocchio (come poi si venne a sapere) una signora biscaina diretta a Siviglia, dove trovavasi suo marito in procinto di passare alle Indie con molta mercanzia; i frati però non erano della comitiva, benchè viaggiassero molto a lei da vicino. Non li vide appena don Chisciotte che disse al suo scudiere: “O ch’io m’inganno, o debb’essere questa la più famosa avventura che siasi giammai veduta; perchè da quel gruppo o mucchio nero che là si scorge, io arguisco che debbon essere incantatori i quali ne menano prigioniera qualche principessa in quel cocchio; ed io devo ad ogni modo impedire così gran torto. — Quest’è ben peggio che i mulini da vento, disse Sancio: guardi bene, signore, quelli sono frati dell’Ordine di san Benedetto, e che sarà una carrozza di gente che viaggia al solito: badi bene a quello che dico, e stia avvertita su ciò che vuol fare, nè si lasci accecare dal diavolo. — Te l’ho già detto, rispose don Chisciotte, che tu non t’intendi di avventure: ciò ch’io dico è vero, e te lo proverà or ora l’effetto. Intanto fattosi innanzi si mise nel mezzo della strada ove i frati dovevano passare, e condottosi al punto da poter essere da loro inteso, sclamò con voce sonante: “Genti diaboliche e scomunicate, lasciate andar libere sull’istante le alte principesse che ne menate a forza prigioniere in quel cocchio, altrimenti preparatevi a ricevere subita morte per giusto castigo delle malvagie vostre opere. Tirarono i frati la briglia alle mule, e si fermarono, colti dal più grande stupore, sì per la strana figura di don Chisciotte, come per le cose che diceva; poi gli risposero: “Signor cavaliere, noi non siamo gente nè diabolica nè scomunicata, ma due religiosi dell’Ordine di san Benedetto che andiamo pe’ fatti nostri; nè ci è noto che in questa carrozza ci siano o no principesse rapite. — A me, replicò don Chisciotte, non la darete ad intendere colle vostre melliflue parole, chè io ben vi conosco, malaugurata canaglia„, poi senz’attendere altra risposta, abbassata la lancia, spronò Ronzinante, e con sì gran furia andò incontro al frate più vicino, che se non si lasciava cader dalla mula, l’avrebbe fatto stramazzar in terra, o morto, o bruttamente ferito. Il secondo religioso, che vide il mal giuoco fatto al compagno, batté furiosamente la mula, e si diede a fuggire per la campagna colla rapidità del vento. Quando Sancio Panza vide il frate disteso in terra, smontò con prestezza dall’asino, e cominciò di botto a spogliarlo. Sopraggiunsero in questo punto due servitori dei frati, e domandandogli perchè gli rubasse i vestiti, Sancio rispose che quello era uno spoglio che se gli apparteneva legittimamente come bottino della vittoria guadagnata dal suo padrone don Chisciotte. I servitori che non sapevano di siffate burle, né s’intendevano di bottini o di  vittorie, vedendo don Chisciotte impegnato a parole con quelli che seguitavano il cocchio, diedero tante percosse a Sancio, che stramazzatolo in terra fuori di sentimento, non gli lasciarono pelo sul mento.. 
Stava don Chisciotte, come s’è detto, ragionando con la signora del cocchio, e le diceva: “La vostra bellezza, signora mia, può oramai disporre di sè medesima a suo senno, poichè la superbia di questi vostri assassini giace abbattuta al suolo mercè il valore del mio braccio...
Uno scudiero tra quelli che seguitavano il cocchio, e ch’era biscaino, stava ascoltando tutto ciò che dicea don Chisciotte, e vedendo ch’egli non permetteva alla carrozza di proseguire pel suo cammino..., afferratagli la lancia, si fece a dirgli in cattivo castigliano e peggior biscaino: “Va, cavaliere, col tuo malanno: ti giuro per chi m’ha messo al mondo che se tu non lasci andar questo cocchio ti ammazzo da biscaino che sono.
Il Biscaino diede sì solenne fendente a don Chisciotte sopra una spalla, che se non lo avesse difeso la rotella lo partiva in due sino alla cintola. Il dolore di sì pericolosa ferita fece gettare uno strido a don Chisciotte, esclamando: “O Dulcinea, signora dell’anima mia, fiore della bellezza, date aita a questo vostro cavaliere…
Don Chisciotte, parte prima, cap VIII
 
Un cocchio scortato da uomini a cavallo e due ignari frati benedettini che
non erano della comitiva, benché viaggiassero molto a lei da vicino, sono sufficienti a scatenare la fantasia di don Chisciotte. Deciso a dar subita morte a quegli incantatori che nel cocchio sicuramente menano prigioniera qualche principessa, che dunque va salvata, don Chisciotte si scaglia lancia in resta contro quella canaglia, frati benedettini compresi, finendo per aver la peggio: uno degli scudieri della scorta, un biscaglino dai modi sbrigativi, lo malmena brutalmente lasciandolo tramortito.

 
Nell’estratto -come in tutto il romanzo-, la contrapposizione tra don Chisciotte e Sancio Panza sortisce effetto di grande comicità: l’uno folle visionario, l’altro pragmatico fino al cinismo
; l’uno ostinato nel voler credere a ciò che non esiste o semplicemente non si vede, l’altro saldamente ancorato ai fatti come sono (...guardi bene, signore, quelli sono frati dell’Ordine di san Benedetto), ma pronto opportunisticamente ad assecondare il padrone, se gliene deriva un guadagno (Quando Sancio Panza vide il frate disteso in terra...cominciò...a spogliarlo. Sopraggiunsero...due servitori dei frati, e domandandogli perchè gli rubasse i vestiti, Sancio rispose che quello era... bottino della vittoria guadagnata dal suo padrone).

 
Eppure, 
nella seconda parte del romanzo la distanza tra i due personaggi s’accorcia fino ad annullarsi: dopo mille rocambolesche e fallimentari imprese, schernito e spesso malmenato, don Chisciotte torna finalmente al villaggio da cui era partito, si ammala gravemente e prossimo alla morte rinsavisce.


Mi sento, nipote mia dolcissima, presso alla mia ultima ora, la quale vorrei passare in modo da far giudicare a tutti che la mia trascorsa vita non è stata tanto sciagurata da lasciare dopo di me la riputazione di pazzo; e sebbene io fui tale pur troppo, vorrei togliere dal mondo questo mal odore di me in questi estremi momenti. Chiamami, ti prego, o figliuola, i miei buoni amici…
Appena don Chisciotte li vide, disse loro: — Congratulatevi meco, miei buoni amici, chè io ho cessato di essere don Chisciotte della Mancia, e sono quell’Alonso Chisciano che per i miei esemplari costumi ero chiamato il buono. Dinanzi a voi mi dichiaro nemico di Amadigi di Gaula e di tutto l’infinito stuolo della sua stirpe; adesso mi vengono in odio tutte le storie profane della cavalleria errante; adesso conosco la mia balordaggine ed il pericolo che ho corso nelle mie letture; adesso per misericordia del Signore Iddio imparo a mio costo a dispregiarle e ad averle in abbominazione…
Tutti si guardarono in faccia l’un l’altro, attoniti alle parole che don Chisciotte aveva dette…Uno degl’indizii da cui conghietturarono ch’egli si avvicinasse alla morte, fu il suo rapidissimo passaggio dalla follia alla saggezza, poichè ai discorsi già riferiti altri ne aggiunse sì bene pensati, sì cristiani, sì giusti, che tolta affatto ogni perplessità, si persuasero che fosse realmente tornato in buon cervello. ..
Finì la confessione, e il curato escì fuori dicendo: — Muore daddovero, e muore con sana mente Alonso Chisciano il buono: potete entrare, miei signori, perchè ora faccia il suo testamento.
Diedero queste nuove terribile spinta ai gravidi occhi della nipote, della serva e di Sancio, di maniera che sgorgavano a torrenti le lagrime, e uscivano dal loro petto mille profondi sospiri. Si è già alcuna volta osservato che sino a tanto che don Chisciotte fu Alonso Chisciano il buono, e non altro, ed anche quando fu don Chisciotte della Mancia, si mantenne egli di piacevole condizione e di tratto urbano, e quindi era ben veduto non solo da quelli di casa sua, ma ben anche da quanti lo conoscevano…
Rivoltosi a Sancio, gli disse: — Perdonami, amico, quelle occasioni che ti ho date di parere pazzo con me, facendoti cadere nell’errore in cui io era che vi fossero o vi sieno al mondo cavalieri erranti….

Don Chisciotte, Parte seconda, cap. LXXIV, conclusione


Così, se nella prima parte del romanzo Don Chisciotte-cavalier errante insegue gioiosamente il suo sogno per tutta la Spagna, per esso subisce percosse, è deriso, cade ma ogni volta si rialza puntando spedito verso la prossima avventura, nel finale la sua folle fede si spegne: troppe volte frustrato nella volontà di credere e sconfitto nella sua battaglia più aspra -quella contro i limiti dell'oggettività-, il fanciullesco creatore di mondi altri non è più capace di sognare e tristemente si arrende alla realtà. 

L'hidalgo non ha altra scelta, cessa di essere Don Chisciotte della Mancia e torna ad essere se stesso: adesso ha in odio tutte le storie profane della cavalleria errante, riconosce la propria balordaggine, se ne vergogna e la disprezza; si scusa per i guai causati; chiede perdono a Sancio per averlo coinvolto nella sua follia e i suoi discorsi sono finalmente sensati, giusti e cristiani come possono esserlo solo quelli di chi è realmente tornato in buon cervello e vede le cose per ciò che sono.

 

Le osterie tornano ad essere solo osterie, i mulini solo mulini. 

 





Bibliografia: 
M. de Cervantes, Don Chisciotte
Cesare Segre, La pazzia come strumento di conoscenza, da Introduzione al Don Chisciotte