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Montale. Non chiederci la parola

 


Non chiederci la parola


Composto nel 1923 e incluso nella raccolta Ossi di seppia, il testo è una chiara dichiarazione di poetica: da sempre considerata custode e insieme espressione di valori assoluti, depositaria e al contempo dispensatrice di verità, la poesia secondo Montale non può comunicare più nulla di positivo.
 
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e splenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
 
Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
 
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
E. Montale, Ossi di seppia
 
Il poeta non può esprimersi con parole definitive e geometricamente precise
(parola che squadri da ogni lato) sull’essenza delle cose o sull’animo umano, realtà complesse (informi) che non si lasciano definire con la nitidezza brillante di un fiore di zafferano (come un croco)egli non possiede formule magiche che forniscano soluzioni o spianino la via verso la Verità (Non domandarci la formula che mondi possa aprirti), ma invidia, sia pur commiserandolo (Ah l’uomo che se ne va sicuro, agli altri ed a se stesso amico) chi vive confortato da certezze incrollabili, non conosce il dubbio e non s’interroga sul lato impenetrabile e oscuro di se stesso e della vita (l’ombra sua non cura che la canicola stampa sopra uno scalcinato muro!).



Interpretazioni a confronto


Scritto nel periodo tra le due guerre mondiali, mentre in Italia s’affermava il Fascismo, il componimento fu interpretato come una sorta di manifesto politico, oltre che poetico: la rinuncia a comunicare verità o valori assoluti passò come il rifiuto di aderire-accettare realtà così com'era (il Regime che andava affermandosi) e le sue mistificazioni culturali. 

Questa l’interpretazione che ne dà Pier Vincenzo Mengaldo, tra i più autorevoli studiosi di Montale (1)

 
È tuttavia indubbio che, accanto a questo tema, vi sia anche quello tutto montaliano legato al disagio esistenziale dell’uomo (e non solo dell'intellettuale-poeta in un preciso momento storico) che avverte la propria estraneità al reale ed è in disarmonia con la vita.
 
Che questo sia il fil rouge della poesia di Montale, è chiaro dal seguente estratto da un’intervista rilasciata nel 1951.
 
«L'argomento della mia poesia (...) è la condizione umana in sé considerata: non questo o quello avvenimento storico. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo; significa solo coscienza, e volontà, di non scambiare l'essenziale col transitorio (...). Avendo sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà che mi circondava, la materia della mia ispirazione non poteva essere che quella disarmonia.» (...) Non sono stato indifferente a quanto è accaduto negli ultimi 30 anni; ma non posso dire che se i fatti fossero stati diversi anche la mia poesia avrebbe avuto un volto totalmente diverso. Un artista porta in sé un particolare atteggiamento di fronte alla vita e una certa attitudine formale a interpretarla secondo schemi che gli sono propri. (...) Io non sono stato fascista e non ho cantato il fascismo; ma neppure ho scritto poesie in cui quella pseudo rivoluzione apparisse osteggiata. Certo, sarebbe stato impossibile pubblicare poesie ostili al regime d’allora; ma il fatto è che non mi sarei provato neppure se il rischio fosse stato minimo o nullo. Avendo sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà che mi circondava, la materia della mia ispirazione non poteva essere che quella disarmonia. Non nego che il fascismo dapprima, la guerra più tardi, e la guerra civile più tardi ancora mi abbiano reso infelice; tuttavia esistevano in me ragioni di infelicità che andavano molto al di là, e al di fuori di questi fenomeni...
Da Sulla poesia, a cura di G. Zampa, Mondadori, Milano, 1976


Il senso di queste parole è inequivocabile: Montale ha sempre inteso riflettere sulla condizione umana universale-sovrastorica, prescindendo dalla specificità di un particolare contesto o avvenimento storico. Una scelta dettata non dal bisogno di estraniarsi dal mondo, fuggendo dalla concretezza del reale o volendo ignorarne i problemi 
(ammette che il Fascismo fu per lui motivo di sofferenza) ma dalla necessità di anteporre l’essenziale al transitorio, ciò che è sempre a ciò che muta, l'infelicità dell'uomo come essere-spaesato nel mondo all'infelicità legata al contingente.

 
Dunque, in Non chiederci la parola -dichiarazione di poetica ma anche di una precisa visione della vita-, parla il poeta, ma parla anche l’uomo Montale: intrappolato nel caos della vita, che è priva di direzione come l’intrecciarsi delle rosse formiche in Meriggiare pallido assorto; spettatore della sofferenza universale come in Spesso il male di vivere; convinto che la Storia stessa sia priva di ordine e senso, egli non è in grado di indicare né vie di fuga (varco) verso una salvezza dal non senso, tanto meno di fornire risposte che squadrino il caos informe della realtà...


Come può la poesia comunicare verità assolute se la condizione umana è di totale disorientamento? Com'è possibile per il poeta pronunciare una parola certa sulla vita se essa è indecifrabile caos?


Nel nichilismo di Montale non c'è spazio per una poesia così. 

 

Solo storte sillabe...


Astenendosi dalle spiegazioni semplici, rifiutando verità consolatorie e mistificatrici, Montale poeta e uomo si esprime in negativo, dicendo ciò che non sa, ciò che non ha e ciò che non comprende, comunica dubbi e incertezze, pone interrogativi e non dà risposte: si limita a dire solo una storta sillaba e secca come un ramo, appunto.
 
 
(1)  Cfr, Pier Vincenzo Mengaldo, La poesia di Montale