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Saturnali. Il mondo al contrario.

 

 

Molto simile al nostro Carnevale, la festa dei Saturnali in onore del dio Saturno si celebrava nell’antica Roma tra il 17 e il 23 Dicembre, dunque nel periodo del solstizio d’inverno che corrisponde al nostro Natale/Capodanno.


I festeggiamenti erano un inno all’abbondanza e alla gioia di vivere: si banchettava, si brindava, si scambiavano doni, si giocava a dadi, si faceva ciò che solitamente era proibito perché troppo licenzioso o sconveniente, ma soprattutto, come in una sorta di mondo al contrario, i ruoli erano rovesciati così che i padroni servivano e i servi comandavano.




Approfittando della libertà di parola concessagli durante i Saturnali, Davo lo schiavo di Orazio, nella Satira n. 7 del Libro II esprime il proprio pensiero sulla libertà, cogliendo al contempo l’occasione per dire senza remore tutto ciò che pensa del padrone.

  


“Da un bel po’ ti ascolto e vorrei dirti anch’io qualcosa,
ma sono schiavo e ho paura”. “Davo?” “Sì, sono Davo,
schiavo amico del suo padrone e perbene… non troppo:
puoi considerarmi longevo”. “Coraggio, approfitta della libertà di Dicembre
che i nostri padri hanno voluto: raccontami”.
“Una parte degli uomini gode sempre dei propri vizi
e mira dritta allo scopo; una parte oscilla, ora cogliendo
il bene, ora schiava del male: così visse volubile
Prisco, ora notato per i suoi tre anelli,
ora con la sinistra vuota, cambiando banda di porpora di ora in ora,
lasciando d’improvviso un palazzo per nascondersi dove
forse si sarebbe vergognato di uscire un liberto con un po’ di decoro;
donnaiolo a Roma, subito dopo studioso ad Atene,
nato con sfavorevoli tutti i Vertumni che sono al mondo.
Volanerio il buffone, dopo che l’artrite gli ebbe
giustamente storpiato le dita, assunse, pagandolo
a giornata, uno per raccogliere i dadi al suo posto
e metterli nel bussolotto; più coerente nel vizio
e dunque meno infelice dell’altro che si affatica
attorno a una fune ora tesa ora molle”.
“Vuoi dirmi dove vanno a mirare questi sproloqui,
furfante, prima di notte?” “A te”. “In che modo, canaglia?”
“Lodi la sorte e i costumi della plebe in antico,
ma se di colpo un dio ti ci riportasse, ti rifiuteresti,
o perché non pensi che quello che predichi sia davvero più giusto,
o perché a difendere il giusto non hai sufficiente fermezza
e rimani attaccato al fango, per quanto cerchi di staccarne il piede.
Quando sei a Roma vuoi la campagna, ma in campagna porti
alle stelle la città. Se per caso nessuno ti invita,
lodi i legumi consumati in pace e ti dichiari contento
di non andare altrove a far bagordi, come ci andassi legato.
Ma se Mecenate ti invita a cena all’ultimo
minuto, ecco che sbraiti a gran voce: ‘Nessuno
che si sbrighi a portarmi il profumo? Siete sordi?’, e scappi via.

E tu sei il mio padrone, tu che cedi a tanti domini di uomini
e di situazioni, che, se anche fossi emancipato
tre o quattro volte, non saresti mai libero dal terrore meschino?
Aggiungi un’altra cosa, non di minor peso di quanto ho già detto:
se il servo di un servo si chiama, secondo il vostro costume,
vicario o compagno di schiavitù, per te io chi sono?
Tu che comandi a me, sei un servo infelice di altri
che ti muovono come una marionetta, con fili esterni.
Chi è libero dunque? Il saggio, che comanda a se stesso,
che non ha paura della povertà, della morte, del carcere,
che affronta da forte le passioni e disprezza gli onori,
che è tutto in sé stesso, compatto e rotondo,
in modo che niente dall’esterno trova appigli nella sua superficie,
e su di lui falliscono sempre gli assalti della fortuna.
Di queste qualità puoi riconoscerne come tua qualcuna?
Una donna ti chiede cinque talenti, ti vessa e ti butta fuori,
t’innaffia di acqua gelida, poi ti richiama: sottrai il tuo collo
al turpe giogo, liberati e di’ ‘Sono libero’.
Non puoi: un padrone crudele tormenta il tuo animo,
ti pianta gli sproni nel corpo sfinito, ti piega
se recalcitri. E quando resti stupito di fronte a un quadro di Pausia,
pazzo, perché hai meno colpe di me quando, in punta di piedi,
guardo le battaglie dipinte con l’ocra o il carbone
da Fulvio, da Rutuba, o Placideano, come se combattessero
nella realtà, colpissero e schivassero, muovendosi, i colpi?
Ma Davo è un furfante e un perdigiorno, te invece ti chiamano
giudice esperto e sottile di cose antiche.
Io sono un buono a nulla se mi faccio sedurre da una focaccia fumante;
ma la tua grande virtù resiste alle ricche cene?
Perché cedere al ventre è più rovinoso per me? Io vengo
percosso sulla schiena, ma tu non sei meno punito
quando cerchi leccornie che non si trovano a poco.
Diventano amari i banchetti smodati,
e i piedi rifiutano di reggere il corpo corrotto.
O forse è colpevole il servo che al buio scambia
lo strigile rubato con un grappolo d’uva, e chi vende
il suo podere per compiacere la gola non è anche lui un servo?
Aggiungi che non riesci a restare un’ora assieme a te stesso,
a far fruttare il tempo libero, e come uno schiavo fuggitivo o un disertore,
ti eviti, cercando nel vino e nel sonno di sfuggire alla preoccupazione,
invano; nera compagna, ti opprime, e se fuggi ti insegue”.
“Datemi una pietra”. “E che te ne fai?”. “Delle frecce!”
“Quest’uomo è un pazzo o un poeta”. “Se non ti togli
di qui in fretta, raggiungerai gli altri otto al podere sabino”.

Orazio, Satire II, 7.


È libero chi non è schiavo delle passioni, questa l’idea alla base dello stoicismo e qui espressa per bocca di Davo, il servo che nel mondo al contrario dei Saturnali ha facoltà di parlare con schiettezza senza timore di essere per questo bastonato.


Se la libertà è nell’emancipazione dalle passioni, Orazio è servo più di ogni servo: ipocritamente egli loda la morigeratezza degli antichi ma se gli si desse la possibilità di tornare al passato in una sorta di viaggio a ritroso nel tempo, rifiuterebbe con vigore, perché ciò che gli piace predicare non corrisponde a ciò che davvero pensa; egli si dice appagato dalla semplicità della vita in campagna, ma poi corre in città dove volentieri gozzoviglia al desco di Mecenate; si crede libero quando in realtà è mosso come una marionetta da chi per lui muove i fili; è schiavo delle donne ed è pronto a correre da loro se richiamato dopo essere stato cacciato; apprezza a tal punto i piaceri della tavola che venderebbe il podere pur di compiacere la gola; è incapace di star solo con se stesso e deve cercare rifugio e conforto nell’alcol; è oppresso da inutili preoccupazioni e come un buffone è pronto a cambiare maschera adattandola alle situazioni. Eppure, Davo è percosso ed è considerato un buono a nulla se si lascia tentare da una fumante focaccia, mentre l’altro,  schiavo del vizio ma ritenuto virtuoso malgrado tutto, lo chiamano giudice esperto e sottile di cose antiche. 

La libertà è del saggio, che imperturbabile si eleva al di sopra delle umane futili passioni, non teme la morte, non ha paura della povertà; compatto e rotondo, bastante a se stesso, egli resiste agli assalti della Fortuna e da nulla si lascia scalfire.


Così parla Davo, lo schiavo saggio...



Semel in anno...

E così, per pochi giorni e per una sola volta all'anno a Roma le prospettive si rovesciavano: i riflettori illuminavano gli invisibili, gli inascoltati zittivano il resto del mondo, il sapiente smetteva di ammaestrare e scopriva di avere ancora molto da imparare...