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Perché il passato ci chiarisce le idee. Riflettendo con L. Canfora



Il saggio di Luciano Canfora Il presente come storia -semplice ma significativo il sottotitolo Perché il passato ci chiarisce le idee- è un volume che in oltre duecento pagine raccoglie articoli già pubblicati per il Corriere della sera dal 2005 in avanti.

Per quanto ogni articolo sia un testo a sé, focalizzandosi ciascuno su un argomento specifico e dunque suggerendo spunti di riflessione su temi ogni volta diversi (il rapporto storia-verità-narrazioneil negazionismoil rapporto tra la storia e altre discipline, questione che a sua volta implica l’elevazione al rango di fatti storici anche per quelli che a lungo sono stati considerati fatti di altra natura ecc.) l’idea di fondo rimane la stessa: il passato è utile alla comprensione/alla interpretazione del presente.
 
In che misura e fino a che punto la storia sia magistra vitae e quanto il passato possa servire al presente è questione che nel XVI secolo vide il confronto tra due Grandi dell’epoca: Machiavelli e Guicciardini.
Machiavelli ne era certo: poiché nel tempo variano gli accidenti ma immutata rimane la sostanza, il passato, e in special modo quello glorioso della Roma antica (Discorsi sulla prima deca di Tito Livio) è un repertorio prezioso di esempi da cui trarre ispirazione, un serbatoio di modelli da emulare o di situazioni da evitare.

Non si tratta di subalterno culto del passato o di soggiogamento classicistico, si tratta della convinzione radicata che in quell’età remota ci fosse un accumulo di esperienze e di pensieri che aspetta ancora di essere stato sfruttato fino in fondo.

L. Canfora, Il sogno di Machiavelli, da Il presente come storia, BUR edizione digitale, 2015
 
Una felice intuizione quella di Machiavelli, perché fondata sulla giusta idea che il passato abbia molto da dire al presente. Tuttavia, nella sua pur feconda posizione, manca la necessaria presa di distanze dagli antichi. In Guicciardini quella presa di distanze c’è. (Cfr, Canfora)In Machiavelli l'approccio ai modelli antichi diventa spesso immedesimazione piena, al punto che egli quasi si trasferisce in loro (cfr, Lettera a Vettori); in Guicciardini invece c’è l’approccio critico al passato che egli definì arte della discrezione.

Quanto si ingannono coloro che a ogni parola allegano e’ romani! Bisognerebbe avere una cittá condizionata come era loro, e poi governarsi secondo quello esemplo; el quale a chi ha le qualitá disproporzionate è tanto disproporzionato, quanto sarebbe volere che uno asino facessi el corso di uno cavallo. 

F. Guicciardini, Ricordi 110

Nell’idea del Guicciardini, esercitare la discrezione significa valutare il fatto/l’evento storico alla luce del contesto che lo ha prodottole condizioni materiali, il clima culturale, persino la demografia. Quella dell’antica Roma è stata certo storia di grandi eventi e di grandi uomini, ma credere che si possa adattare quel modello al presente prescindendo dai due diversi contesti (Bisognerebbe avere una cittá condizionata come era lorole condizioni di oggi sono lontane anni luce da quelle di allorasarebbe come aspettarsi che l’asino corra come fosse un cavallo.
 
Eppure, soggiacciono al corso storico -e dunque agiscono oltre la datità del singolo fatto/evento- delle dinamiche che ricorrono costanti, una storia quasi immobile e quasi fuori dal tempo: è la storia che chiama in causa -accanto ad altro- le pulsioni/i bisogni umani; il rapporto che l’uomo ha con l’altro uomo; il meccanismo intrinseco al potere, insomma un insieme di fenomeni di lunga durata che persistono immutati per moltissimo tempo. 
Su questo piano il passato ha da dirci molto.

Il nemico perfetto
 
Tra le costanti della Storia c’è la costruzione del nemico perfetto che, dice Canfora, è una delle armi più importanti nei conflitti di potenza” ed è sorprendente come sia rimasta la stessa letale arma attraverso i secoli. 

Un esempio. Com’è noto, Roma assurse a potenza imperiale con le guerre puniche, il conflitto che nel 264 a. C. ingaggiò contro Cartagine e che, attraverso fasi alterne e lunghi periodi di tregua, si protrasse fino al 146 a.C., quando la città venne rasa al suolo e la sua popolazione asservita. Fu una guerra tecnologica -compatibilmente con le capacità tecnologiche dell’epoca-, si pensi all’utilizzo del rostro che agganciando la nave nemica permise alla flotta romana di sbaragliare quella avversaria; fu una guerra strategica -l’intuizione del Cunctator di sfiancare il nemico evitando lo scontro frontale fu geniale strategia-; ma fu anche una guerra di propaganda.
Per Roma, la posta in gioco era altissima: il controllo sul Mediterraneo occidentale come premessa/trampolino per l’espansione verso l’Europa orientale. Per attuare più agevolmente il proprio piano e poter trasformare quella guerra di conquista in guerra giusta, i Romani si ritagliarono il ruolo di civilizzatori in lotta contro la barbarie (un'idea rintracciabile in molta storiografia e/o cultura occidentale fino a tempi recentissimi, tant'è che -fa notare Canfora-, G. De Sanctis nel volume Storia dei Romani uscito postumo nel 1964, racconta la distruzione di Cartagine come giusta eliminazione di un peso morto. C'è da rabbrividire).

La conseguenza di questo stato di cose fu che Cartagine divenne sul piano ideologico, e quindi propagandistico e storiografico, il nemico perfetto: portatore di ferocia, slealtà, aridità culturale; e la guerra contro tale nemico divenne il prototipo della guerra giusta; e la condotta romana il prototipo della moderazione, dell’equilibrio, della lealtà. Questo si può osservare sia nel racconto di Tito Livio della guerra contro Annibale (libri XXI e seguenti), il quale scriveva sotto Augusto, sia nei Punica di Silio Italico (oltre dodicimila versi).
() Della creazione del nemico perfetto fa parte, anzi è parte essenziale, la svalutazione della sua civiltà, onde presentare la prevalenza del vincitore come il compimento della marcia trionfale del Bene sul Male, della civiltà sulla barbarie ().
L. Canfora, Delenda Carthago, da Il presente come storia, BUR edizione digitale, 2015
 
Che si tratti delle guerre puniche, dell’assoggettamento delle Gallie ad opera di Cesare, della campagna militare di Ottaviano contro Antonio, dell’avanzata dei conquistadores nel Nuovo mondo, della conquista dello spazio vitale di hitleriana memoria, dello scontro di civiltà tra il bianco e il nero, ma anche banalmente dell'antagonismo tra un partito politico e quello della fazione opposta –l’elenco potrebbe continuare all’infinito- il meccanismo è lo stesso: annientare chi sia per qualche motivo d’intralcio -o semplicemente disturbi per il suo essere altro/diverso- diventa più facile e giusto se, azionando la macchina della propaganda/del fango, lo si addita come moralmente abietto e/o inferiore; egli diventa così il nemico perfetto e il trionfo del vincitore, anche quando avvenga nel segno della più brutale ferocia, passa per essere la giusta vittoria del bene sul male, della civiltà sulla barbarie, dei veri Valori sugli altri.
 
Il culto del capo
 
La storia pullula di capi carismatici, personaggi che in un determinato momento storico hanno a tal punto assommato in sé le caratteristiche e il significato del movimento (o del partito) che guidavano da indurre i seguaci al culto della loro persona: Ottaviano, l’artefice della pax romana che pose fine alla devastazione delle guerre civili, si meritò il titolo onorifico di Augustus e fu ritenuto  "degno di venerazione e di onore"; Napoleone Bonaparte -benché non mancassero i suoi detrattori, tra i quali Madame de Stael che lo dipinse come l’incarnazione del male-  fu osannato come lo stratega geniale, il legislatore lungimirante che avrebbe liberato l’Europa dal vecchiume e dall’oppressione dell’Ancien Régime, e così via fino a Stalin o al nostro Mussolini…
 
Il bisogno da parte dei seguaci di mitizzareil capo, cui corrisponde l’intuizione, da parte del capo, dell’imprescindibile funzione di tale meccanismo mitizzante”, è fenomeno ben documentato. Tanto più esso spicca (e si rivela meccanismo che va al di là delle scelte del singolo) quando l’interessato stesso sarebbe per suo stile e cultura alieno da un tale rapporto quasi religioso e tuttavia, al suo prodursi, vi si adegua () Narra Gramsci, divertito, in una lettera dal carcere, della delusione provata da un compagno incontrato durante uno dei suoi soggiorni di pena, il quale si era immaginato il capo dei comunisti di ben altra, imponente, statura!
L. Canfora, Grandezze e miserie del culto del capo, da Il presente come storia
 
La mitizzazione del capo è fenomeno oltre che ben attestato, anche fenomeno difficilmente evitabile: esso risponde al bisogno di carisma che spinge il seguace a credere che chi lo guida sia l’infallibile salvatore che risolleverà le sorti della Nazione, del popolo o di una classe sociale, anche quando il diretto interessato, per cultura o per carattere, sia restio a questo rapporto quasi religioso. Gramsci, schernendosi, sorrise (è possibile immaginare con quale divertito imbarazzo) quando il compagno, deluso, lo scoprì umanamente molto meno alto del gigante che aveva immaginato! Dall’altra parte, quando il capo non abbia la reticenza e il pudore dell’incorruttibile, è ben felice e sa quanto gli giovi quella mitizzazione che, conferendogli l’aura della sacralità, lo tutela al di là di ogni possibile storia segreta/versione alternativa.

E che dire della fascinazione del potere, degli interessi che muovono le guerre, del populismo, di come la volontà popolare si lasci deviare fino ad autodistruggersi? Gli stessi meccanismi di sempre...


Insomma, la Storia non si ripete identica a se stessa -lo si diceva poco fa citando Guicciardini- e sarebbe ingenuo pensarlo. Ma è un'ingenuità -quando non sia malafede- anche credere di poter archiviare il passato come cosa che non ci riguardi più e che non abbia nulla da dire: cambiando forma ma rimanendo intatti nella sostanza, nel presente vivono elementi del passato invisibili solo a chi non sa o non vuole vederliricorrenze, in alcuni casi inquietanti, sulle quali occorre riflettere; guasti ai quali occorre porre rimedio. 

È per questo che chi afferma che il fascismo è finito a Piazzale Loreto con Mussolini appeso a testa in giù quel 29 Aprile del 1945 dice cosa solo parzialmente corretta perché, se è vero che è morto il Fascismo -quello con F maiuscola, vale a dire quel preciso fenomeno collocabile in un determinato momento storico/contesto e dunque circoscritto al Ventennio- il fascismo con la f minuscola -una certa idea di sé, dell'altro, del mondo, del potere- è ancora tra noi. 

Vivo e vegeto.