Letteratura

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Corrotti e corruzione nella letteratura.

 

La corruzione che vediamo fiorire anche in ambienti e in persone insospettabili e che per questo ancor di più indigna è male antico; il che non significa che la si debba accettare come ineluttabile e non la si possa contrastare, significa solo che l’uomo è da sempre creatura meno nobile di quel che ami credere.



La corruzione nella letteratura


Nel teatro greco corruzione e corrotti ricorrono costantemente: le tragedie di Sofocle (si veda l’Antigone), quelle di Euripide (Medea) o ancora quelle di Eschilo (ad esempio l’Agamennone) mettono in scena personaggi moralmente guasti, pronti a tradire e ad uccidere per il potere o per egoismo. Un mix di corruzione ed empietà che mette i brividi.

 

Nel mondo romano il più feroce fustigatore di corrotti -veri o presunti- è Cicerone: 


«Affermo che in tutta la Sicilia, in una provincia così ricca e così antica, in tante città e in tante famiglie così facoltose, non c'è vaso d'argento, corinzio o di Delo, gemma o perla, manufatto d'oro o d'avorio, non c'è statua bronzea, marmorea, eburnea, non c'è dipinto su tavola o su stoffa, che l'imputato non abbia cercato, esaminato e, se gli piaceva, portato via» 

M. Tullio Cicerone, Verrine

Sono le parole durissime dell'orazione contro Verre, il magistrato accusato di concussione mentre era propretore in Sicilia (73-71 a.C.): cosa riprovevole per Cicerone, convinto che quelli che si dispongono a governare lo Stato devono curare l’utile dei cittadini, dimenticando i propri interessi (De officiis).


Di Virgilio vale la pena ricordare le Bucoliche, in cui Natura e poesia sono l'antidoto alla devastazione della guerra e alla corruzione dilagante.


Lo stoico Seneca, invece, si rifugia nella filosofia e nell’otium lontano dalla corruzione, dal denaro e dalla bassezza di chi lo antepone alla propria dignità (Epistulae morales ad Lucilium). 


La corruzione secondo Dante.

 
Certamente, in fatto di corrotti e corruzione la Divina commedia non ha eguali.

Nella discesa dall’Antinferno verso gli abissi infernali, Dante s’imbatte in peccatori a mano a mano più esecrabili: i non battezzati nel primo cerchio, i lussuriosi nel secondo e a seguire i golosi, gli avari/i prodighi, gli iracondi/gli accidiosi, gli eretici, gli omicidi e così via fino all’VIII cerchio dell’Inferno – (Malebolge, dal XVIII Canto al XXXI) dove è racchiusa tutta la corruzione del mondo. Qui si agita una folla di ruffiani, seduttori, adulatori, simoniaci, indovini, barattieri, ipocriti, ladri, consiglieri fraudolenti, scismatici, falsari, insomma tutti coloro che in vita ingannarono, tradirono o barattarono la propria dignità.

 
Tra i corrotti delle Malebolge, ai simoniaci della terza bolgia (Canto XIX) Dante riserva la sua critica più feroce.

Come il mago di Samaria Simone (da cui deriva la parola simonia), che negli Atti degli Apostoli cercò di comprare la facoltà di comunicare lo Spirito Santo, i simoniaci puniti nella terza bolgia sono coloro che in vita fecero commercio delle cose divine. Ai tempi di Dante in effetti l’Italia pullulava di papi simoniaci che, in barba al principio evangelico di povertà/semplicità come prerogativa della Chiesa, alla guida/alla cura delle anime preferivano di gran lunga il potere e la ricchezza e vendevano cariche ecclesiastiche come fossero noccioline.

Tra i papi simoniaci della terza bolgia si trova più che meritatamente Bonifacio VIII, il papa che Dante aveva detestato perché immorale e cinico ma anche per la promulgazione di quella bolla -Unam sanctam, 1302-, che riconoscendo alla Chiesa il potere temporale di fatto la precipitò nel baratro della corruzione. 

Del papa inviso a Dante, Montaigne scrive: Bonofacio VIII pervenne alla sua dignità come una volpe, vi si condusse come un leone e morì come un cane (cfr, Sggi, Libro II, cap. 1).

 
La corruzione nell’opera di Boccaccio

 
Nel caleidoscopico mondo truffaldino del Decameron muove una folla di ladri, di mentitori opportunisti, di ingannatori di professione, di individui privi di scrupoli e pronti a vendersi per pochi denari: consapevole della corruzione dilagante, Boccaccio la registra, realisticamente ne prende atto, talvolta ne ride quasi a dire che le cose stanno così, l’uomo è quello che è e gridare allo scandalo a poco serve. 

Si pensi alla novella Ser Ciappelletto: il protagonista è l’essere più abietto-corrotto che la fantasia di Boccaccio potesse partorire; blasfemo, ladro e irriducibile bugiardo egli rimane se stesso fino alla fine dei propri giorni, quando ad un passo dall’al di là e con le poche forze che gli restano, maleficamente si diverte a frodare persino il Padreterno. 

Boccaccio certo prende le distanze, ma lo fa limitandosi ad un amaro sorriso.

 

L'idea di Montaigne


Il già citato Montaigne alla riflessione sulla corruzione dedica molte pagine dei suoi Saggi e in special modo il capitolo 1 del libro III significativamente intitolato “Dell’utile e dell’onesto”.

La posizione di Montaigne è riassumibile come segue: l’uomo è per sua natura tendente all’imbecillità, dunque è facile che scivoli nella corruzione. Inoltre, è innegabile che l'inganno costituisca peculiarità intrinseca a molte professioni/attività umane. Tuttavia, poiché la vita è movimento in cui tutto rotola senza posa e nulla è certo, l’atto corruttivo in alcuni casi è utile potendo esso generare un bene maggiore, mentre, al contrario, ciò che è legittimo può paradossalmente risultare dannoso. La vita è così.

 
Io non voglio privare l’inganno del suo rango: sarebbe un mal intendere il mondo. So che ha servito spesso utilmente, e che mantiene e alimenta la maggior parte delle professioni degli uomini. Ci sono vizi legittimi, come parecchie azioni, o buone o scusabili, illegittime.
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Tuttavia, la via della verità è una, e semplice; quella dell’utile personale e del vantaggio degli affari che ci sono affidati, doppia, ineguale e fortuita.
M. Montaigne, Saggi, Libro III, cap. 1
 

Dovendo e potendo scegliere, Montaigne ritiene sia sempre preferibile -pragmaticamente- la via più facile della libertà e della ragione, perché vivere frodando è faticoso dispendio di energie. 

Quanto alla corruzione del potere, lo scettico Montaigne si guarda dall'esprimere giudizi morali, ritendendo come Machiavelli che in alcuni casi essa possa persino produrre del buono. 


Sulla corruzione dei potenti è più severo il giudizio di Shakespeare, le cui tragedie (si pensi all’Amleto) spesso mettono in scena la degenerazione morale di principi/ governanti, o il giudizio di Manzoni nei Promessi sposi, dove la combriccola che è al potere legifera/governa perseguendo il proprio interesse a danno dei più. 


Venendo a tempi più recenti, non si può non menzionare 
Leonardo Sciascia che con Il giorno della civetta (1961) inaugura il racconto sulla mafia che oggi ha in Roberto Saviano uno degli autori più rappresentativi.


Insomma, la corruzione esiste da sempre, è nella natura umana (che non è mai stata granché) e la letteratura racconta sia l'una che l'altra.

Da qui all’assuefazione, però, ce ne corre e oggi pare che nulla faccia più scandalo: che si rubi, s'imbrogli e si raggiri approfittando dell'ingenuità e della buona fede altrui; che un ministro/un servitore dello Stato intaschi bustarelle in cambio di favori, annoveri tra i propri amici individui dalla fedina penale tutt’altro che immacolata, impunemente frodi lo Stato che è chiamato a rappresentare o favorisca figli, nipoti, fratelli, cognati, parenti vicini e lontani; che l'interesse personale prevalga sul bene comune, tutto questo costituisce fenomeno così diffuso che ci indigna/disturba sempre meno. La soglia di tolleranza è pericolosamente vicina all'assuefazione.  


Come reagirebbe il Sommo poeta, che pure al tempo che fu si scandalizzò per molto meno di così? 

Di sicuro gli toccherebbe rimetter mano alla Commedia per triplicare -quantomeno- il numero delle bolge del malaffare