Si dice Barocco e si pensa ad un’arte-letteratura stravagante, eccessiva, sovrabbondante di decorazioni stilistiche: un’arte il cui scopo doveva essere quello di stupire.
Certamente il Barocco seicentesco si è caratterizzato anche per questi aspetti, basti pensare alla poesia di Marino e poi dei marinisti: una poesia che, intendendo rompere con la tradizione, ai canoni classici -l’equilibrio delle forme, la linearità dello stile, la pulizia delle immagini- sostituisce soluzioni formali ardite, un linguaggio evocativo-immaginifico, una variopinta e spettacolare ricchezza di argomenti.
Tuttavia,
ridurre il Barocco a questo soltanto, credere che esso sia stato
sperimentazione fine a se stessa o semplice provocazione ne ridurrebbe la
portata: dietro quelle forme ardite e quella
sovrabbondanza di effetti speciali, si celano una profonda malinconia e
una filosofia della vita sorprendentemente moderna.
La
poesia barocca…non solo effetti speciali
La
poesia barocca per antonomasia è quella di Giovan Battista Marino (1569-1625): a lui guardano tutti
i poeti del tempo, in alcuni casi per emularlo, in altri per criticarlo.
Il
fine del poeta è suscitare stupore e il poeta che non fosse in grado di farlo,
vada a strigliare i cavalli, sostiene Marino in uno dei sonetti della Murtoleide,
divertente satira sul poeta rivale Gaspare Murtola. Ecco allora la necessità di effetti
speciali come quelli in Donna che si pettina:
Onde
dorate, e l’onde eran capelli,
navicella
d’avorio un dì fendea;
una
man pur d’avorio la reggea
per
questi errori prezïosi e quelli;
e, mentre i flutti tremolanti e belli
con drittissimo solco dividea,
l’òr de le rotte fila Amor cogliea,
per formarne catene a’ suoi rubelli.
Per l’aureo mar, che rincrespando apria
il procelloso suo biondo tesoro,
agitato il mio core a morte gìa.
Ricco naufragio, in cui sommerso io moro,
poich’almen fûr, ne la tempesta mia,
di diamante lo scoglio e ’l golfo d’or
Il
pettine come una navicella d’avorio percorre le onde dorate della chioma
femminile che è simile ad un mare prezioso; scioglie i nodi; traccia una
discriminatura tra i riccioli (flutti) e intanto Amore raccoglie i capelli
spezzati per farne una catena con la quale imprigionare, facendolo innamorare,
chi voglia resistergli. E così il poeta, vinto dall’amore, si perde e annega in
quel prezioso mare in cui lo scoglio è di diamante e il golfo è d’oro.
navicella d’avorio un dì fendea;
una man pur d’avorio la reggea
per questi errori prezïosi e quelli;
con drittissimo solco dividea,
l’òr de le rotte fila Amor cogliea,
per formarne catene a’ suoi rubelli.
Per l’aureo mar, che rincrespando apria
il procelloso suo biondo tesoro,
agitato il mio core a morte gìa.
poich’almen fûr, ne la tempesta mia,
di diamante lo scoglio e ’l golfo d’or
Nel sonetto l’intreccio di metafore è fittissimo: un gioco linguistico in cui ogni segno/parola si carica di un doppio significato; ogni cosa rinvia a qualcos’altro (il pettine è una navicella, la chioma della donna è un mare dorato, la bellezza femminile è la bellezza del paesaggio marino e, viceversa, il paesaggio marino ha i tratti della bellezza femminile); gli oggetti, smaterializzati in pure sensazioni di luce o colore, alludono ad altro da sé.
Solo gioco stilistico? Non solo.
La meraviglia è il sommo piacer intellettuale da cui scaturisce la conoscenza di ciò che prima era ignoto: è la tesi del trattatista Emanuele Tesauro, che ne Il cannocchiale aristotelico, ovvero Idea dell’arguta e ingegnosa elocuzione (1654) sulla metafora scrive:
“Né men giovevole a’ dicitori che dilettevole agli uditori è la metafora. Sì perch’ella spesse fiate providamente sovviene alla mendicità della lingua e, ove manchi il vocabulo proprio, supplisce necessariamente il translato...”
Dunque, nella poesia barocca l’artificio stilistico diventa funzionale alla conoscenza e la metafora azzardata, che sorprende con somiglianze/paragoni tra cose apparentemente lontanissime, dice l'indicibile, svela l’invisibile, coglie cioè le mille facce di una realtà mutevole e complessa in cui tutto si mescola, ciascuna cosa è altro da sé, nulla è in assoluto e tutto oscilla senza posa. Secondo una filosofia lontanissima dall'ottimismo rinascimentale, che nel reale vedeva ordine e senso, nel Barocco la realtà è caos che sfugge alla Ragione.

Il tempo divoratore
Giullare
triste, il poeta barocco ha poi chiara la consapevolezza che tutto scorre e il
tempo consuma ogni cosa:
Mobile
ordigno di dentate rote
lacera
il giorno e lo divide in ore,
ed
ha scritto di fuor con fosche note
a
chi legger le sa: Sempre si more.
Mentre
il metallo concavo percuote,
voce
funesta mi risuona al core;
né
del fato spiegar meglio si puote
che
con voce di bronzo il rio tenore.
Perch’io
non speri mai riposo o pace,
questo,
che sembra in un timpano e tromba,
mi
sfida ognor contro all’età vorace.
E
con que’ colpi onde ’l metal rimbomba,
affretta
il corso al secolo fugace,
e
perché s’apra, ognor picchia alla tomba.
Ciro
di Pers, L’orologio da rote
Con il suo meccanismo di ruote dentate, l’orologio
suddivide -lacera- il giorno in ore; ogni suo rintocco, che riecheggia sinistro come il
rullo del tamburo nelle esecuzioni capitali o come lo squillo di tromba del
Giudizio universale, affretta il corso al secolo fugace e ricorda che si muore a ogni istante.
lacera il giorno e lo divide in ore,
ed ha scritto di fuor con fosche note
a chi legger le sa: Sempre si more.
voce funesta mi risuona al core;
né del fato spiegar meglio si puote
che con voce di bronzo il rio tenore.
questo, che sembra in un timpano e tromba,
mi sfida ognor contro all’età vorace.
affretta il corso al secolo fugace,
e perché s’apra, ognor picchia alla tomba.
La fugacità della vita è tema ricorrente nella letteratura di sempre, ma si ripropone insistente nella poesia seicentesca: il tempo divora tutto, la sua furia si abbatte su uomini, cose, sentimenti, memorie.
Eppure, il tempo nulla può contro l’arte e la poesia, la cui forza eternante all'uomo consente di vivere anche oltre il suo ultimo respiro...
…la tua eterna estate non potrà mai svanire
Né perdere il possesso delle tue bellezze,
né la morte vantarsi di averti nell’ombra sua
poiché tu crescerai nel tempo in versi eterni.
Sin che respireranno uomini, e occhi vedranno
di altrettanto vivranno queste rime, e a te daranno
vita
W. Shakespeare, Fino
a quando gli uomini potranno respirare, sonetto 18
Né perdere il possesso delle tue bellezze,
né la morte vantarsi di averti nell’ombra sua
poiché tu crescerai nel tempo in versi eterni.
Sin che respireranno uomini, e occhi vedranno
di altrettanto vivranno queste rime, e a te daranno vita