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J. Swift, I viaggi di Gulliver

 

Storia di un micro/macro-uomo


La fama dell’irlandese Jonathan Swift (1667-1745), autore di opere ironicamente polemiche nei confronti della Chiesa come dell’arrogante potere inglese sull’Irlanda, è tuttavia legata soprattutto al romanzo filosofico I viaggi di Gulliver (1726), gustosa storia che narra i fantastici viaggi di un medico di bordo.


Lemuel Gulliver, questo il nome del protagonista, a seguito di un naufragio raggiunge l’isola di Lilliput, dove tutto è straordinariamente piccolo, compresi gli abitanti.


I lillipuziani, dopo iniziale perplessità, accolgono Gulliver tra loro e ne fanno un eroe quando egli li aiuta nella guerra contro l’impero nemico di Blefuscu.


I rapporti con i piccoli abitatori dell’isola si incrinano irrimediabilmente quando Gulliver, rendendosi colpevole di lesa maestà, orina sul palazzo reale per spegnere un incendio ed è così costretto a fuggire.
 
Nel viaggio successivo, intrapreso dopo un breve soggiorno in Inghilterra, Gulliver giunge nel paese di Brobdingnag, terra dei giganti: qui tutto è smisuratamente grande e lui, esserino minuscolo, è prima catturato, poi esposto come fenomeno da baraccone, infine è tra i balocchi preferiti della figlia del re.
 
Anche questa volta riesce a fuggire.
 
Nei successivi viaggi, Gulliver s’imbatte in altri luoghi bizzarri: l’isola di Laputa che, retta da un governo di scienziati, è soggetta alla legge della razionalità; l’isola volante di Glubbdubdrib, luogo di stregoni e maghi; il regno di Luggnagg dove vivono gli Struldbrugg, esseri immortali che tuttavia Gulliver non invidia perché condannati in eterno a sopportare il dolore e la miseria della vita; infine la terra governata dai cavalli -gli Houyhnhnm- che, dotati di saggezza e razionalità, dominano sugli yahoo, esseri scimmieschi avidi e ipocriti, meschini e infidi molto simili all’uomo.
 
Sul finire del pranzo, entrò una balia con un bambino di un anno in braccio, il quale mi scorse immediatamente e, per avermi come giocattolo cominciò, secondo la consueta eloquenza dei bambini, a strillare così forte che lo si sarebbe potuto udire dal London-Bridge a Chelsea. La madre, per compiacergli, mi sollevò accostò al bimbo, il quale subito mi afferrò per la vita e si portò la mia testa in bocca; ma, una volta in essa, diedi un urlo tale che il piccolo ne fu spaventato e mi lasciò cadere; ed io mi sarei infallibilmente rotto il collo se la madre non avesse tenuto aperto il grembiule sotto di me. La balia, per chetare il bimbo, si valse d’un sonaglio, una specie di recipiente pieno di grosse pietre e legato con una gomena alla cintola del bimbo, ma tutto inutile, talché la donna fu costretta ad adoperare l’estremo rimedio: attaccarselo al seno. Confesso che nulla mai mi fece più schifo che quelle mostruose poppe, che non saprei a cosa paragonare per consentire ala lettore di formarsi un’idea della loro mole, forma, colore. Sporgevano sei piedi e la loro circonferenza ne misurava almeno sedici. Un capezzolo era press’a poco la metà della mia testa e capezzoli e mammelle erano screziati da tante macchie, pustole e lentiggini, che nulla poteva vedersi di più nauseabondo. Avevo agio di osservarla da vicino, ché si era messa a sedere per poter più comodamente allattare. Mentre io ero sulla tavola ritto in piedi. Questo mi fece pensare alle belle carnagioni delle nostre signore inglesi, le quali ci sembrano così formose solo perché hanno le nostre stesse dimensioni, e i difetti della loro pelle non si possono vedere se non con una lente d’ingrandimento; la quale poi, infatti, ci rivela che l’epidermide più liscia e più candida è, in realtà, scabra, ruvida e di brutto colore.
Mi ricordo che, quando ero a Lilliput, la carnagione di quei minuscoli esseri mi sembrava la più bella del mondo; e parlando intorno a questo argomento con un dotto del paese, mio intimo amico, mi sentii dire che il mio volto appariva più bello e più lisci quando egli mi guardava dal suolo che non quando poteva prenderne visione da vicino tutte le volte che lo sollevavo e lo reggevo sulla mia mano per accostarlo alla mia faccia. Questa allora, egli confessava, appariva, le prime volte almeno, proprio ripugnante.
 
Il romanzo è la narrazione metaforico/fantastica di un lungo complesso viaggio al di là dei confini, e non solo geografici.


Uscendo dal proprio microcosmo di certezze che credeva incrollabili e di valori che riteneva assoluti, orgoglioso di appartenere alla civiltà umana, Gulliver scopre mondi, popoli e costumi altri; con essi è costretto a confrontarsi scoprendosi solo quasi intelligente nel mondo dei sapienti cavalli, vivendo la frustrazione dell’inferiorità fisica tra i giganti, insomma maturando via via una serie di esperienze che lo portano a ridimensionare la presunta superiorità del genere umano. Presuntuosamente convinto di appartenere ad una civiltà superiore, accecato dalla protervia, l’uomo, che in realtà è essere limitato e
vicino alla bestia per avidità ed egoismo, maschera la propria pochezza sotto l’apparente razionalità-giustezza di civili costumi o di verità assolute.

 
Nel divertente episodio della balia, il tema è appunto il relativismo della verità.
Nel rovesciamento del rapporto dimensionale tra sé e gli altri, prima gigantesco nel regno di Lilliput, poi minuscolo tra giganti nell’estratto sopra riportato, Gulliver giunge alla consapevolezza che la percezione della realtà, quindi la verità, muta con il mutare della prospettiva: il volto di Gulliver appare bello e liscio se visto dal basso, è ripugnante se osservato da vicino; la pelle della balia, che è spettacolo nauseabondo difficilmente descrivibile per chi è avvezzo alle belle carnagioni delle signore inglesi -le quali tuttavia appaiono avvenenti solo a chi ha le loro stesse dimensioni, e i difetti della loro pelle non si possono vedere se non con una lente d’ingrandimento-, probabilmente esercita grande attrattiva su chi valuta in base ad altra scala e osserva da altro punto di vista:
 
A proposito delle dame di corte lillipuziane, quell’amico mi diceva che una aveva la pelle lentigginosa, un’altra la bocca troppo larga, una terza il naso troppo grosso, tutti difetti che io non ero capace di scernere.
Confesso che queste mie riflessioni sono di per loro evidenti; eppure ho dovuto farle per evitare che il lettore avesse a credere realmente deformi quelle creature enormi: anzi, per rendere loro giustizia, debbo dire che sono una razza avvenente; segnatamente le linee del volto del mio padrone, nonostante fosse un semplice campagnuolo, quando le osservavo dall’altezza di sessanta piedi, apparivano assai ben proporzionate. 

 

Disgustato dagli esseri umani, dall'ipocrisia dei valori correnti come dalla tirannia di verità date per assolute, Swift morirà nel 1745 sull’orlo della pazzia: un po’ come il suo Gulliver che, tornato in Inghilterra dopo lungo girovagare, vivrà lontano dall’arroganza degli uomini e preferirà -pazzo?- la compagnia dei cavalli…