Quinto Orazio Flacco nacque nel 65 a.C. a Venosa, località della Basilicata che allora era una colonia romana.
Compiuti gli studi a Roma, dove aveva seguito il padre, uno schiavo liberto
che tuttavia si era arricchito grazie al lavoro di esattore delle aste
pubbliche, Orazio fu poi in Grecia, più tardi in
Campania, dove frequentò il circolo epicureo di Filodemo.
Di idee convintamente repubblicane, dopo l’uccisione di Cesare si schierò
con i cesaricidi, combattendo nel 42 a.C. a fianco di Bruto nella battaglia di
Filippi
La sconfitta di Filippi ad opera di Ottaviano e Marco Antonio segnò per
Orazio la fine del sogno repubblicano: amareggiato, nel 41 rientrò a Roma dove
svolse l’incarico di scriba quaestorius fino al 38 a. C. quando grazie a
Virgilio fu ammesso nel circolo di Mecenate.
La protezione di Mecenate, che gli fu amico fino alla fine, gli permise di
dedicarsi pienamente allo studio e alla letteratura: videro così la luce le sue
opere più significative.
Nel 31 Orazio si trasferì nella villa in Sabina regalatagli da
Mecenate e lì visse in una tranquilla aurea mediocritas, lontano dal
tumulto della città fino all’anno della sua morte avvenuta nell’8 d. C.
Le opere, il pensiero
Orazio scrisse Epodi, Odi, Satire ed Epistole.
Pur nella diversità dei generi letterari e nella varietà dei temi
affrontati, le opere di Orazio trovano il loro comune denominatore nella
singolare commistione tra Epicureismo e Stoicismo, filosofie per molti versi
contrastanti, che tuttavia Orazio fece proprie in un’interpretazione originale
in cui talvolta esse collidono: e così da un lato c’è quel carpe diem, (Ode N.11 del libro I) che è invito a godere dell’attimo, dal lato opposto c'è la malinconica
consapevolezza della fugacità del tempo; da una parte l’idea che la vita vada
serenamente accettata pur con il suo carico di dolore e dall’altra l’angoscia
di fronte alla morte ben sintetizzata nel verso Pulvis et umbra sumus» dell'Ode n.7 del Libro IV; per un verso il desiderio di quiete e solitudine per l’altro il
rifiuto dell’isolamento.

Piazza Orazio Flacco, Venosa

Alla pensosa malinconia di Epodi, Epistole e Odi fa da contrappunto l’ironia delle Satire, il cui lo sguardo divertito sull’umanità, colta nella quotidianità di costumi e caratteri, ci regala un sorriso.
Il seccatore
La satira n. 9 del libro I è forse tra le più note delle diciotto che
compongono l’intera opera: essa è l’esilarante ritratto del seccatore
Per la via sacra, com’è mio costume,
Men giva a caso rivolgendo in mente
Non so quai baje, e tutto in quelle assorto,
Mi sopravviene un tal, che a me sol noto,
Era di nome, e strettami la mano,
Che fai tu, mi dic’egli, o mia delizia?
Sto ben per ora, gli rispondo, e bramo
Che il Cielo amico ogni tua voglia adempia.
Siccome al fianco e’ mi venia, soggiunsi,
Vuoi da me qualche cosa? Ed esso: Io voglio
Tu mi conoschi. Un letterato io sono.
Tanto più, dissi, in pregio avrò il tuo merto.
Struggendomi di voglia onde potermi
Scantonar da costui, or affrettava
Or allentava il passo, e qualche cosa
Nell’orecchio diceva al mio valletto.
Scendendomi il sudor fino a’ talloni
Io meco sottovoce: O te, Bollano,
Felice di cervello, iva dicendo.
Colui pur cinguettando a suo talento,
Lodando i borghi e la città, nè alcuna
Da me risposta avendo: Io da gran tempo
...
Disse, m’accorgo che svignar vorresti.
Ma il tenti invan. Ti terrò saldo, e sempre
Verrotti a lato. Dov’hai volto il piede?
— Non v’è bisogno che a girar ti stanchi.
Vo un amico a trovar, che non conosci.
…Ed ei: nulla ho che fare, ho buona gamba,
Vo’seguitarti. Allor le orecchie abbasso,
Come asinel di mal umor, che sente
Da troppa soma gravarsi le spalle.
Poi prende a dir: se mal non mi conosco,
Tu certo avrai piacer d’avermi amico
Non men di Visco e Vario. E chi di fatto
A compor versi è più di me spedito?
Chi più svelto a danzare? Io canto in guisa
Ch’Ermogene medesmo avriane invidia.
……
Scorsa del dì la quarta parte al tempio
Di Vesta si arrivò. Costui citato
Dovea allor comparire al tribunale,
Se no, perder la lite. Un poco, ei dice,
Sta qui se mi vuoi ben. — Vorrei morire
S’io son buono a star ritto, o s’io m’intendo
O molto o poco di ragion civile.
Vo di fretta ove sai. — Son indeciso,
Dice, e non so, s’io lasci te, o la lite. —
Lascia pur me. — Mai no — Va innanzi, ed io
(Poichè duro è giostrar con chi ha più forza)
Gli vengo appresso. Allor così ripiglia;
Che fa il tuo Mecenate? — Egli ama in casa
Poca brigata, e di cervello sana.
E quegli a me: nessun ha mai trovato
Sorte miglior di te. Se a quel signore
Tu mi presenti, in me che subalterno
Ti sarò sempre, un grande appoggio avrai.
Possa crepar, se tu non vieni a capo
Di sbalzar tutti quanti. — Eh no, risposi,
Non vivesi colà come tu pensi.
Casa alcuna di quella più specchiata
Non v’è, nè più da tai magagne intatta.
A me non reca pregiudizio alcuno
Che altri o più ricco o sia di me più dotto.
Ciascuno avvi il suo loco. — Una gran cosa
E credibile a pena tu mi narri.
— E pur egli è così. — Tanto più accendi
In me la brama d’appressarmi a lui.
— Sol che tu voglia (tal è il tuo valore)
Espugnar lo saprai. Non mancan arti.
Perciò ritroso alquanto è a’ primi abbordi.
— Non lascerò di far le parti mie,
Guadagnerò la servitù co’ doni,
Se oggi escluso ne son, non resterommi
Di rinnovar le inchieste; i buoni incontri
Esplorerò; l’apposterò per via;
Farogli la mia corte. In questa vita
Nulla s’acquista senza gran fatica.
Mentr’ei fa questi conti, ecco che innante
Veggio il caro venirmi Aristio Fusco,
Che di lui piena conoscenza avea.
Ci soffermiamo e dimandiam l’un l’altro:
D’onde, e dove si va? Gli afferro e prendo
A pizzicar le penzolanti braccia,
Facendo cenni e stralunando gli occhi,
Perchè mi scampi. Egli s’infinge e ride
Furbescamente. Io mi sentia di rabbia
Le viscere abbruciar. Già mi dicesti
Che tu avevi a parlar meco in segreto.
— Me ne ricordo ben; ma lo riserbo
A miglior tempo. Oggi ricorre appunto
Un Sabbato solenne e vorrai forse
De’ circoncisi profanar la festa?
— Oh su questo i’ non ho scrupolo alcuno.
— Io sì; patisco affè tal debolezza,
Come un del volgo, e tu la mi perdona.
Ci parleremo un altro dì. — Che nero
Sole spuntò per me! Fugge l’iniquo;
E mi lascia a languir sotto il coltello.
Sennonchè vien per buona sorte incontro
A quel cotale il suo avversario e grida:
Dove si va furfante? In testimonio
Poss’io pigliarti? I’ porgogli l’orecchia.
Ei se ’l tira in giudizio. Al gran fracasso
Che fanno, accorre d’ogni parte gente.
E così Apollo mi salvò la vita.
Men giva a caso rivolgendo in mente
Non so quai baje, e tutto in quelle assorto,
Mi sopravviene un tal, che a me sol noto,
Era di nome, e strettami la mano,
Che fai tu, mi dic’egli, o mia delizia?
Sto ben per ora, gli rispondo, e bramo
Che il Cielo amico ogni tua voglia adempia.
Siccome al fianco e’ mi venia, soggiunsi,
Vuoi da me qualche cosa? Ed esso: Io voglio
Tu mi conoschi. Un letterato io sono.
Tanto più, dissi, in pregio avrò il tuo merto.
Struggendomi di voglia onde potermi
Scantonar da costui, or affrettava
Or allentava il passo, e qualche cosa
Nell’orecchio diceva al mio valletto.
Scendendomi il sudor fino a’ talloni
Io meco sottovoce: O te, Bollano,
Felice di cervello, iva dicendo.
Colui pur cinguettando a suo talento,
Lodando i borghi e la città, nè alcuna
Da me risposta avendo: Io da gran tempo
Ma il tenti invan. Ti terrò saldo, e sempre
Verrotti a lato. Dov’hai volto il piede?
— Non v’è bisogno che a girar ti stanchi.
Vo un amico a trovar, che non conosci.
…Ed ei: nulla ho che fare, ho buona gamba,
Vo’seguitarti. Allor le orecchie abbasso,
Come asinel di mal umor, che sente
Da troppa soma gravarsi le spalle.
Poi prende a dir: se mal non mi conosco,
Tu certo avrai piacer d’avermi amico
Non men di Visco e Vario. E chi di fatto
A compor versi è più di me spedito?
Chi più svelto a danzare? Io canto in guisa
Ch’Ermogene medesmo avriane invidia.
……
Scorsa del dì la quarta parte al tempio
Di Vesta si arrivò. Costui citato
Dovea allor comparire al tribunale,
Se no, perder la lite. Un poco, ei dice,
Sta qui se mi vuoi ben. — Vorrei morire
S’io son buono a star ritto, o s’io m’intendo
O molto o poco di ragion civile.
Vo di fretta ove sai. — Son indeciso,
Dice, e non so, s’io lasci te, o la lite. —
Lascia pur me. — Mai no — Va innanzi, ed io
(Poichè duro è giostrar con chi ha più forza)
Gli vengo appresso. Allor così ripiglia;
Che fa il tuo Mecenate? — Egli ama in casa
Poca brigata, e di cervello sana.
E quegli a me: nessun ha mai trovato
Sorte miglior di te. Se a quel signore
Tu mi presenti, in me che subalterno
Possa crepar, se tu non vieni a capo
Di sbalzar tutti quanti. — Eh no, risposi,
Non vivesi colà come tu pensi.
Casa alcuna di quella più specchiata
Non v’è, nè più da tai magagne intatta.
A me non reca pregiudizio alcuno
Che altri o più ricco o sia di me più dotto.
Ciascuno avvi il suo loco. — Una gran cosa
E credibile a pena tu mi narri.
— E pur egli è così. — Tanto più accendi
In me la brama d’appressarmi a lui.
— Sol che tu voglia (tal è il tuo valore)
Espugnar lo saprai. Non mancan arti.
Perciò ritroso alquanto è a’ primi abbordi.
— Non lascerò di far le parti mie,
Guadagnerò la servitù co’ doni,
Se oggi escluso ne son, non resterommi
Di rinnovar le inchieste; i buoni incontri
Esplorerò; l’apposterò per via;
Farogli la mia corte. In questa vita
Nulla s’acquista senza gran fatica.
Mentr’ei fa questi conti, ecco che innante
Veggio il caro venirmi Aristio Fusco,
Ci soffermiamo e dimandiam l’un l’altro:
D’onde, e dove si va? Gli afferro e prendo
A pizzicar le penzolanti braccia,
Facendo cenni e stralunando gli occhi,
Perchè mi scampi. Egli s’infinge e ride
Furbescamente. Io mi sentia di rabbia
Le viscere abbruciar. Già mi dicesti
Che tu avevi a parlar meco in segreto.
— Me ne ricordo ben; ma lo riserbo
A miglior tempo. Oggi ricorre appunto
Un Sabbato solenne e vorrai forse
De’ circoncisi profanar la festa?
— Oh su questo i’ non ho scrupolo alcuno.
— Io sì; patisco affè tal debolezza,
Come un del volgo, e tu la mi perdona.
Ci parleremo un altro dì. — Che nero
Sole spuntò per me! Fugge l’iniquo;
E mi lascia a languir sotto il coltello.
Sennonchè vien per buona sorte incontro
A quel cotale il suo avversario e grida:
Dove si va furfante? In testimonio
Poss’io pigliarti? I’ porgogli l’orecchia.
Ei se ’l tira in giudizio. Al gran fracasso
E così Apollo mi salvò la vita.
Satire (I, n.9)
Orazio va tranquillo per la sua strada, quando gli si accosta un tale che, come oggi diremmo, gli attacca bottone.Orazio tenta di svignarsela, affretta il passo perché sta andando a trovare
un amico, ma l’altro non demorde, non ha nulla di urgente da fare ed è pronto a
seguirlo.
Orazio suda, oppresso da quel tormento come l’asinello sotto il peso della
soma.
Strada facendo, il seccatore rivela che è atteso in tribunale per una causa, ma è indeciso, non sa se lasciar l’amico Orazio per la causa o la causa per Orazio; il poeta evidentemente non ha dubbi, lasci pure lui e vada dove deve.
Il seccatore temporeggia. Poi chiede di Mecenate: come sta? È fortunato Orazio a godere della sua protezione! Se Orazio potesse metter una buona parola per lui, che compone versi degni di nota ed è abile
nella danza come nessun altro, egli gliene sarebbe grato.
Orazio vorrebbe potersi dileguare, ma l’altro non molla la presa.
Fortuna vuole che sopraggiunga l’amico Aristio Fusco; Orazio s’aggrappa alle sue penzolanti braccia come ad un’ancora di salvezza: non si era detto di vedersi per parlare in gran segreto di quell’affare? - chiede Orazio ammiccando-; l’altro furbescamente gli risponde che si può attendere e va via lasciando il povero Orazio alla sua tortura.

Casa di Orazio a Venosa
Infine, pietosamente Apollo soccorre il poeta: il seccatore è raggiunto da chi lo
attendeva in tribunale ed è trascinato via.
N essuno è senza vizj al mondo...
