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La risata che ci salverà


Gli uomini ridono da sempre.

L’origine del riso, che tuttora rimane misteriosa nonostante una folla di psicologi, sociologi e scienziati d’ogni specie abbiano studiato a fondo il fenomeno, anticamente dovette far lambiccare parecchio, dovette sembrare qualcosa di magico e arcano allo stesso tempo, tant’è che in più di un mito il mondo origina proprio da una risata.

Dal riso di Dio nacquero i sette dei che governarono il mondo…Non appena Egli scoppiò a ridere nacque la luce….Scoppiò a ridere per la seconda volta e fu acqua dappertutto. Alla terza risata apparve Ermes, alla quarta la generazione, alla quinta il destino, alla sesta il tempo.

Secondo l’antico papiro di Leida del III secolo, inspiegabilmente divertito Dio crea l’universo: ride a crepapelle ed è l’acqua, un’altra bella risata ed ecco la luce, continua a ridere ed è tutto ciò che permette la vita sulla terra, ivi compreso il destino dei viventi, cosa che deve aver suscitato la risata più fragorosa.
 

Ogni epoca ha la sua risata


C’è modo e modo di ridere: la risata può essere gioiosa, ironica, aggressiva, ilare, sardonica, sarcastica, benevola, ambigua, buffonesca ma anche decisamente malevola e cattiva; si ride di sé -in verità meno frequentemente di quel che si dovrebbe- e si ride degli altri; c’è il riso individuale e quello collettivo; insomma, il riso è multiforme e per questo può essere inquietante, esso ambiguamente oscilla tra il divino e il diabolico, il bene e il male, lo spirito e la carne.
In quanto fenomeno universale, il riso può variare molto da una società all’altra, nel tempo come nello spazio…
G. Minois, Introduzione, Storia del riso e della derisione, Ediz. Dedalo
 

Ogni epoca ha la sua risata, questa la tesi di Minois in Storia del riso e della derisione. 

I Greci dell’età arcaica ridevano molto e di gusto, tant’è che nell’antica Grecia le feste pullulavano: Dionisie, Baccanali, Lenee e altro ancora erano festeggiamenti per lo più a carattere religioso in cui, complice il travestimento-la mascherata e a suon di risate liberatorie, si infrangevano regole e tabù, ci si abbandonava ad ogni eccesso, dando la stura a dionisiaci istinti repressi.

Il riso sfrenato era dunque la manifestazione di un contatto con il mondo divino e serviva ad assicurarsene la protezione simulando anzitutto il ritorno al caos originale che precedeva la creazione di un mondo ordinato.
G. Minois, storia del riso e della derisione, cap 1
 

Il riso eccessivo delle feste orgiastiche era in realtà meno trasgressivo di quel che sembra: attraverso gli eccessi, i bagordi sfrenati, la messa in scena della devianza, del male, dell’irrazionale, attraverso la rappresentazione plastica del caos primigenio, il riso era il mezzo per stabilire un contatto con il mondo divino e ricordare all'uomo che la sua vita era governata proprio da quel ridanciano e oscuro mondo: insomma, la messa in scena del disordine serviva a confermare l’ordine esistente.
 
Con il passare del tempo, l’audace e selvaggia risata dell’età arcaica lasciò il posto ad un riso più amabile/contenuto, un riso che, coerentemente con l’ideale di ragionevole moderazione che percorre la civiltà dei filosofi a partire dal sec V secolo a.C., era alleato della ragione, non trasgrediva le regole -al contrario irrideva i trasgressori-, non si abbandonava ad eccessi che anzi condannava come irragionevoli.

Ora, coloro che eccedono nella giocosità, passano per essere buffoni e insulsi: desiderando la giocosità a tutti i costi e mirando a provocare il riso piuttosto che a dire cose sensate…
Aristotele, Etica Nicomachea, IV
 
Ridere va benissimo, sentenzia Aristotele, a patto che non si ecceda e non si cada nella volgarità e nell’insulsaggine.


Mentre i filosofi condannavano il riso, la vita reale procedeva su altri binari e i Greci se la spassavano producendosi in battute di spirito, motteggi, prese in giro e scherzi tutt’altro che urbani.
 
Anche nell’antica Roma si rideva molto: accanto alla colta risata umoristico-satirica o elegantemente ironica di Cicerone, Orazio o Plauto, c’era la risata sguaiata dei Saturnali, carnevalesca festa in cui, in una sorta di mondo al contrario, i ruoli erano ribaltati, i poveri gozzovigliavano, i padroni servivano e i servi comandavano (Orazio Satire II, 7).


All’avvento del Cristianesimo e poi per tutto il Medioevo, il riso fu bandito perché sconveniente e contrario all’insegnamento di Cristo, dunque divenne obbligatorio piangere.
Ride infatti chi è in preda al delirio, ma non è sano. Ma ancora: chi è di mente sana, compiange il pazzo che ride. Anzitutto, se presenti queste due questioni: Che è meglio, ridere o piangere? Chi è che non scelga per sé di ridere? Infine, a motivo del dolore salutare della penitenza, il Signore ha posto nel pianto il dolore, nel riso la ricompensa. Come? Quando afferma nel Vangelo: Beati coloro che piangono, perché rideranno. Quindi nel pianto è il dolore, nel riso è il premio della sapienza. Ha messo il riso al posto della gioia, non trattandosi di un ridere sguaiato, ma di esultanza. Pertanto se presenti queste due cose e chiedi quale sia la migliore di esse, ridere o piangere, ogni uomo non vuole piangere e vuole ridere. Ancora: se confronti persone e persone, che cosa è meglio: che rida il demente o che pianga il sano? L'uomo sceglie per sé la sanità con il pianto, piuttosto che il riso con la demenza. Ha tanto valore la sanità mentale da preferirsi anche unita al pianto.
Sant’Agostino, Discorsi, 175
 
Insomma, c’è poco da ridere in questo mondo, ammonisce Sant’Agostino: si accetti cristianamente la sofferenza e si pianga per i propri peccati perché solo così si otterrà la ricompensa di poter ridere nella beatitudine eterna.


Bandito dalla cultura ufficiale come deplorevole espressione del demonio, anche nel Medioevo -come nella Grecia dei filosofi- il riso sopravvisse nella cultura popolare: il popolo continuò a sbellicarsi dal ridere in feste, spettacoli comici, carnevali e buffonate d’ogni genere che parodiando la vita -con i suoi ruoli fissi e le sue regole- davano forma al sogno di libertà.


L'umorismo


Nel Rinascimento il riso acquista dignità filosofica assurgendo a strumento di riflessione -seria, serissima- sulla vita e sulle sorti dell’uomo.
L’importanza del riso nel Rinascimento è confermata anche da una novità…il riso entra a far parte della grandeletteratura, Confinato nei generi popolari della farsa e della sotiedurante il Medioevo, epoca in cui discipline nobili ed estremamente serie come la filosofia, la teologia e la storia trionfavano, ecco che con Boccaccio, Rabelais, Cervantes e Shakespeare il riso accede al rango filosofico. Partendo dagli insegnamenti degli antichi ma senza trascurare le scoperte moderne, ci si rende conto che il riso può dare una visione globale del mondo, che può avere un significato esplicativo ed esistenziale, che può contrapporsi alla concezione seria e tragica imposta dal cristianesimo ufficiale. Il riso non è soltanto svago, esso può anche essere una filosofia: ecco una delle grandi scoperte del Rinascimento…La vita è fondamentalmente una tragedia, non una commedia….Il riso è una riflessione sulla tragedia, un modo di interpretarla, di vederne il senso o il non-senso e tutti i grandi, da Shakespeare a Hugo, l’hanno compreso: l’uomo è grottesco, la condizione umana è grottesca….Tutto si riduce ad una buffonata…Noi entriamo nella vita nel modo più triviale, ne usciamo nella maniera più penosa e fra queste due tappe ci agitiamo a metà strada tra follia e accecamento. Tutto questo non è forse risibile? Coloro che vogliono prendere sul serio questa buffonata sono senza dubbio i più ridicoli.
Georges Minois, cap. VIII, La risata assordante del Rinascimento da Storia del riso e della derisione
 
La risata rinascimentale non ha nulla di gioioso/ilare, essa non è dionisiaca prorompente forza vitale, al contrario è la risata amara che nasce dal disincanto, dalla consapevolezza che la vita non è che un’enorme grottesca pagliacciata. Non è tragicamente ridicola la condizione umana? C’è da sbellicarsi dalle risate a considerare l’inutile affaccendarsi dell’uomo, l’inutile pupazzata che ogni giorno egli è costretto a rinnovare per convincersi di essere più vicino a Dio di quanto non lo sia alla bestia, come nel capolavoro di Rabelais Gargantua e Pantagruele. Non sono ancor più ridicoli gli uomini che si credono importanti, dimenticando che anche quando si trovino sul trono più elevato del mondo essi siedono comunque sul proprio posteriore? (cfr Montaigne Saggi, libro I). Non è grottesco l'imparruccato  sapiente che crede di possedere la verità? (cfr, Erasmo da Rotterdam, L'elogio della follia).


La rinascimentale umoristica risata nasce sul precipizio in fondo al quale è il caos in cui si agitano le debolezze umane e la ridicola pretesa di possedere la Verità laddove, al contrario, nulla è certo, i contrari si fondono, e le dotte discettazioni intorno al Bene che è sempre bianco e al Male che è sempre nero rivelano tutta la propria inconsistenza.


L'amara risata del Novecento


Nato in epoca moderna, poi relegato ai margini nel secolo dei lumi -che all’irrazionalità del riso sostituì il dispotismo della Ragione che tutto spiega- l’umorismo trova terreno fertile nella crisi del XX secolo. 

Nel Novecento l’umorismo permette di sopravvivere alla catastrofe delle guerre mondiali e all’oppressione dei totalitarismi che, quel vuoto aperto dalla morte degli dei decretata da Nietzsche sul finire del XIX secolo e dal filosofo immaginata come garanzia-condizione di libertà, riempiono con nuove dispotiche Verità in nome di un Senso che non c’è.


Per l’uomo novecentesco, dunque, l’umorismo è l’unico antidoto al male di vivere/al disorientamento esistenziale: ridere- sia pur amaramente- delle tragedie del presente, dell’assurdità della vita, pagliacciata senza senso come in Pirandello, malattia che non ammette cura come in Svevo (Cfr, la Coscienza di Zeno), è necessario per non soccombere.


In fondo la vita, lo si diceva poco fa, non è che lo scherzo di dei giocherelloni e un po’ crudeli: ridiamoci su con loro, tanto sappiamo in anticipo come il gioco andrà a finire…