Letteratura

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L'ostentazione della ricchezza. Orazio

 

Checché ne pensasse Socrate, che si contentava di un’unica tunica per tutte le stagioni e riconosceva la sola ricchezza che è nella virtù, desiderare di essere ricchi -o quantomeno aborrire la povertà- è cosa naturale e per nulla disdicevole.


Il denaro, sarebbe ipocrita negarlo, garantisce una libertà che oggettivamente l’indigenza rende impossibile; inoltre regala quella meravigliosa -sia pure illusoria- sensazione di onnipotenza per la quale, in uno stato di beata ottusità, il ricco crede che il portafogli gli garantisca qualunque cosa (felicità, amore, salute), salvo giungere (inevitabilmente) al momento in cui scopre che non tutto è in vendita.
 

Desiderare la ricchezza dunque è naturale e possederla non è un reato (almeno nella stragrande maggioranza dei casi); tuttavia sarebbe opportuno avere il buon gusto di non ostentarla: a che pro sbatterla in faccia al mondo? Perché esibire coram populo (esibizione che per lo più oggi avviene nella forma di video o immagini sui social) il lusso della propria abitazione, del proprio yacht o della propria cabina-armadio che, grande come l’appartamento di un operaio, straripa di scarpe firmate e di abiti griffati?

Benché la domanda sia retorica e la risposta scontatissima, qualche esempio letterario può servire a fare il punto.

Prendiamo Quinto Orazio Flacco, il poeta latino passato alla storia per quel carpe diem che è tra le frasi più inflazionate al mondo.


Per nulla bacchettone, anzi benevolmente tollerante verso le debolezze umane, Orazio non sopportava i ricchi sbruffoni, volgari ieri esattamente come lo sono oggi.
Lupis et agnis quanta sortito obtigit,
tecum mihi discordia est,
Hibericis peruste funibus latus
et crura dura compede.
Licet superbus ambules pecunia,
Fortuna non mutat genus.
Videsne, Sacram metiente te viam
cum bis trium ulnarum toga,          
ut ora vertat huc et huc euntium
liberrima indignatio?
«Sectus flagellis hic triumviralibus
praeconis ad fastidium
arat Falerni mille fundi iugera
et Appiam mannis terit
sedilibusque magnus in primis eques
Othone contempto sedet.
Quid attinet tot ora navium gravi
rostrata duci pondere
contra latrones atque servilem manum
hoc, hoc tribuno militum?»
Quinto Orazio Flacco, Epodi, IV
  
Il mite Orazio ammette di nutrire grande antipatia nei confronti di uno schiavo liberto qui non ben identificato: la sua avversione rasenta quella che divide lupi e agnelli.
L’ex schiavo ha ancora sulla pelle le cicatrici delle funi che lo tenevano legato e il suo incedere tronfio, lo sfoggio continuo che fa della sua ricchezza non cancellano la sua origine. Altezzoso e pieno di sé con quella sua toga lunga fino ai piedi, egli ora possiede mille iugeri di terra, percorre in carrozza la via Appia, ma non vede quanta indignazione susciti nei passanti.
 

Si direbbe che l’avversione di Orazio nei confronti dell’altro sia dovuta unicamente al fatto che l’ex schiavo è un parvevu, un individuo che la sorte e certe leggi romane hanno strappato alla schiavitù permettendogli di arricchirsi. In realtà il bersaglio di Orazio, che libertino patre natus (figlio di uno schiavo liberto) nulla può avere contro la mobilità sociale, è altro: il cattivo gusto che è nell’ostentazione, la volgarità che è nell’esibire ciò che si ha, il patetico tentativo di apparire migliori di ciò che si è sfilando per le strade di Roma con una toga lunga due metri.


È la storia di Trimalchione   


Il povero (si fa per dire) Trimalchione, personaggio del Satyricon di Petronio, non ha altro che la ricchezza: ignorante come una capra, d’intelligenza limitatissima, rozzo e maleducato, egli sarebbe invisibile se non fosse per il suo denaro e per quei suoi banchetti traboccanti di argenteria. 

Gli adulatori lo lusingano, fingono interesse per le stupidaggini che dice, gli riconoscono qualità che non possiede e intanto se la ridono: di lui, della pacchianeria del suo pitale d'argento, dei suoi anelli, dei suo bracciali e così via...

 
Ora, se alla toga sostituiamo l’abito griffato, al posto della carrozza ci mettiamo una porsche, all’argenteria di Trimalchione sostituiamo costosi gioielli, la realtà non è lontana dalla finzione letteraria.
 
In soldoni (tanto per rimanere in tema) e per concludere, il ricco si tenga stretti i suoi averi e se li goda fin che può, non è un crimine; creda pure che la ricchezza lo renda migliore, se questo lo conforta; continui a pensare che il conto in banca valga più della laurea, affari suoi; s’illuda che il denaro serva ad allontanare la sofferenza, la malattia, la morte;
 si sollazzi quanto e come vuole; insomma, faccia e creda liberamente ciò che gli pare, ma abbia la decenza e l'intelligenza di evitare l'ostentazione, volgare quanto inutile: quelli che ricchi non sono, non hanno lavoro, vivono nelle case fatiscenti di periferie degradate e non arrivano a fine mese, loro hanno ben chiaro cosa significhi essere poveri, non hanno bisogno che qualcuno glielo ricordi sciorinando sotto i loro occhi tutto quello che essi non hanno, né avranno mai... 


Eh, brutta cosa l’invidia sociale”- obietterà qualcuno: può darsi… per questo sarebbe bene evitare di alimentarla.