Letteratura

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La donna brutta nella poesia


Lo stereotipo femminile nella letteratura


La poesia di tutti i tempi ruota intorno a figure di donne bellissime: al solo guardarle il poeta che le canta o chiunque s’imbatta in esse incrociandone lo sguardo anche solo per una frazione di secondo, non può non rimanere tramortito da amore eterno.


La poesia provenzale, con al centro l’amor cortese, è un repertorio vastissimo di dame inequivocabilmente belle alle quali il cavaliere dedica le proprie imprese nella speranza di riceverne in cambio quanto meno un po’ di considerazione, in casi più fortunati persino un bacio e forse qualcosina di più.


Bella senza se e senza ma, per giunta angelica nei modi e nel portamento, è la Beatrice di Dante, il quale non può evitare di innamorarsene perdutamente fin da quel primo incontro all’età di nove anni. 


Laura con i suoi capelli a l’aura sparsi sortisce lo stesso effetto su Petrarca.


E che dire di tutta quella folla di bellezze mozzafiato che popola l’opera di Ariosto, prima fra tutte l’irresistibile Angelica che tutti inseguono inutilmente?


Non si può tacere, infine, delle donne belle ma anche furbe, sorta di femministe ante litteram -e per questo ancor più insidiose per chi se ne innamora- che agiscono in opere come La locandiera di Goldoni. Nessuno scampo per coloro che sono presi d’amore per donne così.



La poesia accoglie le donne brutte



Le cose rimangono immutate e la letteratura d’ogni dove continua a celebrare la bellezza e la grazia femminili, fino a quando W. Shakespeare, in una sorta di illuminazione sulla realtà -quella vera- prende atto che al mondo esistono anche le brutte, le sgraziate e le dis-graziate.  E qualcosa si muove. La bruttezza conquista finalmente lo spazio che le è sempre stato negato.
 

Gli occhi della mia donna non sono come il sole;
il corallo è più rosso del rosso delle sue labbra:
se la neve è bianca, allora il suo petto è grigio;
se i capelli sono filamenti, sulla sua testa crescono fili neri.
 
Ho visto rose damascate, e rosse, e bianche,
ma non ne vedo sulle sue guance;
e in certe fragranze c’è più delizia
che nell’alito che la mia Bella esala.

Amo sentirla parlare, eppure so
che la musica ha un suono più lieto:
non ho mai visto camminare una dea
 

ma quando cammina, la mia donna calpesta il suolo:
ma, giuro, la mia amata è così unica
quanto ogni donna tradita da falsi confronti.

 

La donna descritta in questo suo sonetto da Shakespeare non emana il canonico profumo di rosa, il suo alito non ha la fragranza della menta piperita, la sua voce non è la solita celeste melodia e il suo incedere nulla ha della camminata altera di una dea: insomma, trattasi di donna normale, di quelle che riempiono il mondo di ieri come quello di oggi.



Q. Massys, La duchessa brutta

Giovan Battista Marino (1569-1625), poeta barocco, e con lui i marinisti, hanno orizzonti così ampi sulla bruttezza come elemento costitutivo della vita, che rincarano la dose e giungono a cantare la donna zoppa con Giovan Leone Sempronio (1603-1646), la donna pidocchiosa con Anton Maria Narducci (1585-?) nel sonetto Sembran fère d'avorio in bosco d'oro.

 
Sembran fere d’avorio in bosco d’oro
le fere erranti onde sì ricca siete;
anzi, gemme son pur, che voi scotete
da l’aureo del bel crin natio tesoro;
 
o pur, intenti a nobile lavoro,
così cangiati gli Amoretti avete,
perché tessano al cor la bella rete
con l'auree fila ond’io beato moro.
...

La donna di Narducci ha in comune con quella della tradizione solo l’aurea chioma, che tuttavia è abitata da bestiole -pidocchi- che generosamente il poeta paragona a preziose gemme.


Poeta anch’egli marinista, Bernardo Morando (1589-1656) in Bella donna cui manca un dente magnifica la donna sdentata, perché quella breccia tra i denti, che ne interrompe l’ordine eburneo, è appositamente creata da Amore in persona, che da lì scocca i suoi dardi e innamora.


Contra il tiranno Amor, cui sempre cura
fu d’opprimere i cor con pene e pianti,
ordiro giá ben mille offesi amanti,
agognando vendette, aspra congiura.
 
     Fèssi il foco in Amor giel di paura:
fuggí; volse a te, bella, i piè tremanti,
ché del tuo cor nei rigidi adamanti
s’avvisò di trovar magion sicura.
 
     Ma, rispinto dal cor, dentro la bocca
fra quei muri d’avorio ei tutte accolse
le forze sue, quasi in munita ròcca.
 
     Lá da l’ordine eburno un dente tolse,
onde stassi in agguato e i dardi scocca,
onde, presa la mira, al cor mi colse.

 
Meraviglioso!

Facendo un balzo in avanti di qualche secolo, la donna sciatta e bruttina acquista pieno diritto di cittadinanza grazie alla poesia dei crepuscolari: la signorina Felicita descritta da Gozzano è straordinariamente normale per quella sua faccia quadrata e quasi priva di sopracciglia, con gli occhi del colore di stoviglia, tutt’altro che sexy nel suo spignattare e, a quel che sembra, neppure di brillante intelligenza, a giudicare da quel suo sorridere di tutto.


Insomma, un po’ per volta -e fortunatamente- la poesia/la letteratura si libera della presenza ingombrante di irresistibili top model per accogliere il mondo delle donne normali, ma uniche nella loro normalità: quelle che spettinate, con problemi di alitosi, stanche per le incombenze quotidiane e inevitabilmente destinate alla vecchiaia -esattamente come lo sono persino le bellissime- finora hanno vissuto ai margini della letteratura come della società.