Letteratura

Visualizzazione post con etichetta Quando Il popolo è una bestia varia e grossa. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Quando Il popolo è una bestia varia e grossa. Mostra tutti i post

Quando il popolo è una bestia varia e grossa…

 

Quando diciamo popolo, potremmo voler far riferimento a concetti/realtà differenti: al popolo come soggetto politico, per intenderci quello che nella Grecia classica era il demos, nella Roma repubblicana era il populus e che oggi figura sovrano nelle costituzioni democratiche indipendentemente dal sesso, dal reddito o dalla religione; potremmo voler indicare il popolo che per lingua, cultura e tradizioni si riconosce orgogliosamente in una nazione; ma potremmo anche voler dire moltitudine.
Ma quale moltitudine? La multitudo costituita dai meno abbienti, quel popolino da sempre ai margini della Storia che per i Greci era plêthos -ma anche demos in senso lato- e a Roma la plebs? Il popolo bue, massa acritica/non-pensante che si conforma passivamente e si lascia manipolare? Oppure ancora la moltitudine che è folla istintiva e irrazionale in cui gli individui, perso ogni autocontrollo, si abbandonano alle peggiori nefandezze?
 
Insomma, popolo è realtà multiforme e complessa.

 

Il volgo


Sul popolo come moltitudine/volgo in contrapposizione ai ceti dominanti per censo e per cultura, filosofia e letteratura si sono espresse talvolta per esaltarne la genuinità, per denunciarne le sofferenze/l’emarginazione, per auspicarne l’emancipazione; molte altre volte per additarne l’ignoranza e/o la pericolosità perché in fondo naturalmente abietto.


Tra i detrattori del demos-volgo figura Platone.

Non ha dubbi Platone, il popolo è inaffidabile e triviale: ottusa bestia governata dall’istinto -anima desiderativa- il demos persegue il piacere e non la virtù, la licenziosità e non la morigeratezza, l’utile/il piacere e non il bene.
Intento solo a nutrirsi, a bere e ad accoppiarsi, esso è mandria che procede con lo sguardo fisso a terra, anima incapace di elevarsi nei cieli aperti della saggezza e della Verità. (Cfr Repubblica, libro VIII)
Per queste sue inclinazioni il demos è incapace di amministrare saggiamente il potere, dunque la democrazia è da escludere ed è da preferirle un governo in cui il potere sia gestito dai filosofi, coloro che di giustizia e verità fanno lo scopo della propria esistenza. Un’idea in linea con l’aristocratico kalokagathia 
(sia pure “riveduto e corretto” rispetto alla tradizione omerica) l’ideale secondo cui il bello e il buono appartengono ai pochi la cui anima è in grado di perseguirli (Simposio).


Da Platone in avanti, l’idea di popolo come insieme di individui quasi geneticamente immorali
/inferiori s’insinua -e neanche tanto sottotraccia- in molta filosofia e letteratura fino al XVIII secolo, quando eventi rivoluzionari dirompenti di fatto al popolo conferiscono un protagonismo inedito sul palcoscenico della Storia e la cultura gli attribuisce virtù e onestà tutte nuove: per gli Illuministi e poi nel Romanticismo ottocentesco il popolo è una sorta di buon selvaggio, anima genuina e incorrotta; nel Realismo è umanità dolente e sfruttata che merita solidarietà e compassione.



Ma fino a qui la strada è lunga e poiché letteratura e filosofia sono rivelatrici dello spirito e delle condizioni di un tempo, ecco che Dante (più precisamente il secondo Dante, quello deluso dall’esperienza comunale-popolare che si fa via via monarchico) usa toni di disprezzo nei confronti del popolo, -in special modo nei confronti dei vili mercanti avidi di denaro- arrivando persino a rivalutare la nobiltà di sangue come garanzia di virtù, tant’è che alla domanda di Farinata (cfr, Divina Commedia, Inferno Canto X) che gli chiede chi siano i suoi antenati, Dante, il cui padre pare fosse un usuraio, glissa imbarazzato (1). C'è poi Machiavelli con quel suo popolo naturalmente infingardo e traditore che il principe deve tenere a bada facendosi anch’egli un po’ bestia -un po’ volpe e un po’ lione (Il Principe, cap. XVIII) o che, quando coincida con il popolino (popolo minuto) è massa violenta e irrazionale come lo sono i Ciompi nelle Istorie fiorentine. Persino per il rivoluzionario Tommaso Campanella, l’intellettuale che nella proprietà privata scorse la fonte di ogni male prima ancora di Rousseau (Discorso sull'origine e i fondamenti dell'ineguaglianza tra gli uomini, 1755) il visionario che sognò una società democratica ed egualitaria (La città del sole) il popolo è bestia ignorante che non impara e non vuole farlo.

 
Il popolo è una bestia varia e grossa,
ch’ignora le sue forze; e però stassi
a pesi e botte di legni e di sassi,
guidato da un fanciul che non ha possa,

ch’egli potria disfar con una scossa:
ma lo teme e lo serve a tutti spassi.
Né sa quanto è temuto, ché i bombassi
fanno un incanto, che i sensi gli ingrossa.

Cosa stupenda! e’ s’appicca e imprigiona
con le man proprie, e si dà morte e guerra
per un carlin di quanti egli al re dona.

Tutto è suo quanto sta fra cielo e terra,
ma nol conosce; e, se qualche persona
di ciò l’avvisa, e’ l’uccide ed atterra.”
Tommaso Campanella, Poesie
 
Scritto quando Campanella è in carcere per aver tentato nel 1599 di sollevare il popolo calabrese contro il governo spagnolo, primo step di un progetto che prevedeva l’instaurazione di una democrazia egualitaria, il sonetto è una dolente constatazione: il popolo è un bestione. Inconsapevole della propria forza, incatenato nell’ignoranza il popolo non immagina quanto sia temuto e così sopporta percosse, subisce soprusi, si piega servile al cospetto del potere persino quando esso sia nelle mani di un fanciullo imberbe.  Potrebbe governare il cielo e la terra se si scrollasse dall’inerzia, invece con le proprie mani si dà il tormento, combatte guerre che non gli appartengono in cambio di un soldo e usa la forza bruta contro chi provi ad indicargli altra via.

 
Massa e folla

«Nihil ergo magis praestandum est quam ne, pecorum ritu, sequamur antecedentium gregem…

L. A Seneca, Se vita beata

A nulla bisogna badare di più che a non seguire come pecore il gregge che ci precede…
 
Il richiamo all’esercizio della Ragione e all’autonomia di giudizio il -fil rouge dell'intera opera senecana-, nel De vita beata si traduce nella fuga dal conformismo della massa, popolo amorfo che come gregge, spento il pensiero e debole la volontà, acriticamente fa propria l’opinione che qualcuno -il potere, il capo, la maggioranza- fa passare come giusta. 

 
Altra cosa è la folla, temporaneo e casuale assembramento di individui nel medesimo luogo: nel 1921 Freud ne descriverà i meccanismi nel in Psicologia delle masse e analisi dell'Io, Seneca li intuisce 18 secoli prima.

 
Mi chiedi cosa soprattutto dovresti evitare? La folla. Non ti affiderai ancora tranquillamente ad essa. Io certamente ammetterò la mia debolezza: quando rientro in casa non sono mai lo stesso che ne è uscito. Si scompone in parte l’equilibrio che avevo già raggiunto; ritorna qualcuno dei vizi che avevo messo in fuga (…) La frequentazione di molte persone è dannosa: ognuno ci suggerisce un vizio o ce lo trasmette o ce lo attacca senza che ce ne accorgiamo. In ogni caso, quanto è maggiore la folla cui ci mescoliamo, tanto più c’è pericolo. Ma non c’è nulla tanto dannoso ai buoni costumi quanto l’abbandonarsi a qualche spettacolo: infatti allora i vizi si insinuano più facilmente attraverso il piacere. (…) Per caso sono capitato nello spettacolo di mezzogiorno: mi aspettavo scene scherzose e battute di spirito e un po’ di distensione con cui gli occhi si riposassero dallo spettacolo del sangue umano. È tutto l’opposto: tutti i combattimenti precedenti erano atti di compassione, ora, lasciando da parte gli scherzi, sono semplici omicidi. …
Seneca, Epistulae ad Lucilium (I, 7)
 
La folla, bestia dalle mille teste: Seneca ne è inorridito; la incontra urlante nelle piazze, la ritrova quando, animalesca e morbosa, assiste ai pubblici spettacoli eccitandosi alla vista del sangue.

Protetto dall’anonimato, confuso tra tanti, quando è nella folla anche l’individuo più ragionevole e morigerato rischia di perdersi nel vizio, di abbandonarsi alla violenza, di dire e di fare quello che in altre situazioni mai direbbe e farebbe. Per questo Seneca fugge dagli assembramenti caotici: sente che il proprio equilibrio vacilla, teme che riaffiori il vizio faticosamente tenuto a bada, sa che potrebbe cedere alla parte peggiore di sé per poi ritrovarsi solo con se stesso e stentare a riconoscersi.
Accade così nel racconto manzoniano sulla rivolta per il pane nei Promessi sposi o in quello di Verga nella novella Libertà; è ciò che accade nel branco; insomma è quello che si verifica ogni volta in cui una folla -più o meno numerosa- assalta, spacca, uccide, stupra: a cose compiute, quando la folla si disperde, ciascuno ritorna se stesso e incredulo si chiede come abbia potuto...
 
 


(1) Alessandro Barbero - Dante e la nobiltà (youtube.com)