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Da Locke all’Illuminismo: lo Stato

 

Dopo la rivoluzione copernicano-galileiana, che sovvertì la millenaria idea di universo, l’Illuminismo è stata forse la più grande rivoluzione culturale di tutti i tempi.

Dalla Francia settecentesca come un’onda anomala di proporzioni gigantesche le idee dei philosophes raggiunsero l’Europa, facendola vacillare.

Il mondo andava radicalmente cambiato, questa l’idea degli illuministioccorreva abbattere privilegi che trovavano la loro unica ragion d’essere nella presunta innata superiorità di alcuni individui su altri; ridisegnare il rapporto tra gli uomini, tutti uguali fin dalla nascita; liberare l’uomo dall’errore della superstizione e dalla paura di Dio; ripensare il rapporto tra le diverse religioni alla luce della reciproca tolleranza; riformare il sistema giudiziario abolendo la pena di morte -tema caro in special modo agli illuministi italiani Cesare Beccaria e i fratelli Verri. 

Occorreva, infine, ridefinire ruolo e poteri dello Stato, poiché esso storicamente è nato per la tutela degli individui, non per opprimerli.

 
Lo Stato secondo Locke


Il debito dell’Illuminismo nei confronti di Locke è enorme.

Vissuto a metà del XVII nell’Inghilterra delle guerre civili (Prima Rivoluzione inglese- dal 1642; Gloriosa Rivoluzione-1688) che portarono alla nascita di una monarchia costituzionale, egli fu il paladino della tolleranza, l’assertore dell’uguaglianza, il nemico dell’assolutismo, il teorico dello Stato liberale e per questo fu d’ispirazione per l’illuminismo per così dire maturo del XVIII secolo.


Nei Due trattati sul governo (1690), Locke respinge con forza l'assolutismo di origine divina, che di fatto è la legittimazione del potere di uno solo e della sudditanza dei tanti.
 
Essendo gli uomini, come si è detto, tutti per natura liberi, eguali e indipendenti, nessuno può essere tolto da questa condizione e assoggettato al potere politico di un altro senza il suo consenso. Il solo modo in cui un uomo si spoglia della sua libertà naturale e assume su di sé i vincoli della società civile, consiste nell’accordarsi con altri uomini per associarsi e unirsi in una comunità al fine di vivere gli uni con gli altri in comodità, sicurezza e pace, nel sicuro godimento della sua proprietà e con una maggiore protezione contro coloro che non vi appartengono.[…]
Se l’uomo nello stato di natura è così libero come si è detto, se è padrone assoluto della propria persona e dei propri beni, pari al più grande fra tutti e a nessuno soggetto, perché rinuncia alla sua libertà? Perché cede il suo imperio e si assoggetta al dominio e al controllo di un altro potere? A ciò è ovvio rispondere che, sebbene nello stato di natura egli abbia un tale diritto, tuttavia il godimento di esso è molto incerto e continuamente esposto alle violazioni da parte di altri. Infatti, essendo tutti re tanto quanto lui, essendo tutti suoi pari ed essendo per lo più poco rispettosi dell’equità e della giustizia, il godimento della proprietà che egli ha in questo stato è molto incerto, molto insicuro. Ciò lo induce a desiderare di abbandonare una condizione che, per quanto libera, è piena di rischi e di continui pericoli. Non è senza ragione che egli cerca e desidera unirsi in società con altri che sono già riuniti, o hanno in mente di riunirsi, per la reciproca salvaguardia della loro vita, libertà e beni…
J. Locke, Il secondo trattato sul governo, Rizzoli, cap. VIII
 
Gli uomini nascono liberi, uguali e indipendenti: basterebbe quest’unica frase a rendere la portata rivoluzionaria del pensiero di Locke.

Poiché nello stato di natura tutti sono sovranamente liberi di fare ciò che vogliono senza restrizioni, i diritti del singolo sono a rischio perché esposti alle violazioni da parte degli altri individui; chiunque potrebbe privare l'altro della proprietà o della vita, per questo l’uomo rinuncia ad una parte della propria libertà consociandosi con altri uomini nella società civile e sottoponendosi spontaneamente al controllo del potere politico dello Stato.

Lo Stato dunque nasce sul consenso e dalla volontà generali unicamente con il compito di garantire il bene comune, la pace e la giustizia, salvaguardando i diritti dei singoli.
 

Stato e giustizia: Cesare Beccaria


Portato fino in fondo, il ragionamento su cui è fondato il contrattualismo –appunto l‘idea, più tardi ripresa da Rousseau, che lo Stato nasca sulla base di un patto in base al quale gli individui cedono una parte della propria libertà in cambio di sicurezza ed equità- sfocia nella conclusione alla quale pervenne Cesare Beccaria nel trattato Dei delitti e delle pene (1764): il potere dello Stato non deve superare i limiti del rispetto della dignità e dei diritti dei singoli.


La pena di morte e la tortura violano il primo tra i diritti, il dritto alla vita.
Questa inutile prodigalità di supplicii, che non ha mai resi migliori gli uomini, mi ha spinto ad esaminare se la morte sia veramente utile e giusta in un governo bene organizzato. Qual può essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili?
Non certamente quello da cui risulta la sovranità e le leggi. Esse non sono che una somma di minime porzioni della privata libertà di ciascuno; esse rappresentano la volontà generale, che è l’aggregato delle particolari. Chi è mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l’arbitrio di ucciderlo? Come mai nel minimo sacrificio della libertà di ciascuno vi può essere quello del massimo tra tutti i beni, la vita? E se ciò fu fatto, come si accorda un tal principio coll’altro, che l’uomo non è padrone di uccidersi, e doveva esserlo se ha potuto dare altrui questo diritto o alla società intera? Non è dunque la pena di morte un diritto, mentre ho dimostrato che tale essere non può, ma è una guerra della nazione con un cittadino, perché giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere. Ma se dimostrerò non essere la morte né utile né necessaria, avrò vinto la causa dell’umanità […] Che debbon pensare gli uomini nel vedere i savi magistrati e i gravi sacerdoti della giustizia, che con indifferente tranquillità fanno strascinare con lento apparato un reo alla morte, e mentre un misero spasima nelle ultime angosce, aspettando il colpo fatale, passa il giudice con insensibile freddezza, e fors’anche con segreta compiacenza della propria autorità, a gustare i comodi e i piaceri della vita? Ah!, diranno essi, queste leggi non sono che i pretesti della forza e le meditate e crudeli formalità della giustizia; non sono che un linguaggio di convenzione per immolarci con maggiore sicurezza, come vittime destinate in sacrificio, all’idolo insaziabile del dispotismo. L’assassinio, che ci vien predicato come un terribile misfatto, lo veggiamo pure senza ripugnanza e senza furore adoperato.
C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, cap. 28
 
Poiché nessun individuo può aver rinunciato al proprio diritto alla vita nel momento in cui ha sottoscritto il patto da cui è nato lo Stato, ne consegue che la pena di morte è un arbitrio perpetrato dalla Nazione sul cittadino.

La pena di morte è poi una contraddizione in termini: è irragionevole pensare che si debba punire l’assassino commettendo ai suoi danni lo stesso atroce delitto.

Quanto all'utilità della pena di morte…:
Chi dicesse che la schiavitù perpetua è dolorosa quanto la morte, e perciò egualmente crudele, io risponderò che sommando tutti i momenti infelici della schiavitù lo sarà forse anche di più, ma questi sono stesi sopra tutta la vita, e quella esercita tutta la sua forza in un momento; ed è questo il vantaggio della pena di schiavitù, che spaventa più chi la vede che chi la soffre; perché il primo considera tutta la somma dei momenti infelici, ed il secondo è dall’infelicità del momento presente distratto dalla futura.[…] Ma colui che si vede avanti agli occhi un gran numero d’anni, o anche tutto il corso della vita che passerebbe nella schiavitù e nel dolore in faccia a’ suoi concittadini, co’ quali vive libero e sociabile, schiavo di quelle leggi dalle quali era protetto, fa un utile paragone di tutto ciò coll’incertezza dell’esito de’ suoi delitti, colla brevità del tempo di cui ne goderebbe i frutti.

C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, cap. 28


Ingiusta e irragionevole, la pena di morte è per giunta inutile: essa non ha capacità deterrente poiché esaurisce tutta la sua forza -e il suo orrore- nello spazio di un attimo; al contrario la detenzione in carcere implica una sofferenza che si dilata e si protrae nel tempo -in alcuni casi, per tutta la vita-; un’idea questa che spaventa e che perciò ha forza deterrente senz’altro maggiore della pena di morte.

Altrettanto inefficace è la tortura che, potendo scegliere in un’infinità di tipologie, il magistrato utilizza ogniqualvolta debba ottenere la confessione del reo sospetto: in realtà le sofferenze inflitte con la tortura non inducono a confessare chi, per corporatura robusta e carattere forte, è in grado di sopportarle; d'altra parte l'individuo particolarmente sensibile al dolore si dichiarerà colpevole di ciò che non ha commesso, pur di sottrarsi alla tortura.



24.01.2024

NEW YORK - Kenneth Eugene Smith è diventato il primo condannato a morte americano ucciso usando una maschera ad azoto. È stato giustiziato giovedì sera, nell’Holman Correctional Facility di Atmore, in Alabama...
Smith, secondo il resoconto dei testimoni, è rimasto cosciente per "diversi minuti dall'inizio dell'esecuzione" e per i due minuti successivi "tremava e si contorceva su una barella".

 

la Repubblica, 26.01.2024