Solitudine -dal latino solitudo- "è lo stato di chi è solo come condizione passeggera o duratura": questa la definizione Treccani.
Di solitudine si può morire quando essa consista nella disperante condizione di chi è in uno stato di isolamento o di separazione forzata dai propri cari e dal mondo; è al contrario desiderabile la solitudine che nutre l'anima con la riflessione e riavvicina il singolo a se stesso.
Nella Roma devastata dalle guerre civili (I sec. a.C.) e poi frastornata dal crollo di
istituzioni secolari (la fine della Repubblica), la quiete del vivere
appartati per recuperare energie e riconciliarsi con se stessi è esigenza sentita fortemente: Catullo elogia l’otium che rinfranca e solleva dalle
fatiche; Virgilio nelle Bucoliche (42-39 a.C.) esalta la vita
semplice nella solitudine silenziosa e pacificatrice della Natura; Orazio
appena può fugge da Roma per rifugiarsi nella quiete solitaria della sua villa
in campagna; più tardi Seneca (I sec. d. C.) nella vita ritirata scorge l’unico
antidoto alla banalità che ottunde le menti…
LA VITA
RITIRATA
Seneca Lucilio suo salutem
Consilio
tuo accedo: absconde te in otio, sed et ipsum otium absconde […] Animalia
quaedam, ne inveniri possint, vestigia sua circa ipsum cubile confundunt: idem
tibi faciendum est, alioqui non deerunt qui persequantur.
[…]
Quid tibi
vitandum praecipue existimes quaeris? Turbam. Nondum illi tuto committeris. Ego
certe confitebor inbecillitatem meam: numquam mores quos extuli refero; aliquid
ex eo quod composui turbatur, aliquid ex iis quae fugavi redit. Quod aegris
evenit quos longa inbecillitas usque eo adfecit ut nusquam sine offensa
proferantur, hoc accidit nobis quorum animi ex longo morbo reficiuntur…
[…]
Son del
tuo parare: rifugiati nella solitudine, ma tieni nascosta anche la stessa
solitudine […] Certi animali per non essere scoperti, confondono le proprie
tracce: tu devi fare la stessa cosa, altrimenti non mancheranno quelli che ti
rintracceranno.
[…]
Mi domandi
cosa dovresti evitare più di ogni cosa? La folla. Non ti affiderai
tranquillamente ad essa. Io certamente ammetto la mia debolezza: quando torno a
casa non sono mai lo stesso che ne è uscito. Si rompe l’equilibrio che avevo
già raggiunto; ritorna qualcuno dei vizi che avevo messo in fuga. Quello che
capita agli ammalati, che una lunga infermità riduce al punto che non possono
mai uscire senza risentirne, questo avviene a noi, i cui animi si stanno
riprendendo in seguito ad una lunga malattia.
Quid tibi vitandum praecipue existimes quaeris? Turbam. Nondum illi tuto committeris. Ego certe confitebor inbecillitatem meam: numquam mores quos extuli refero; aliquid ex eo quod composui turbatur, aliquid ex iis quae fugavi redit. Quod aegris evenit quos longa inbecillitas usque eo adfecit ut nusquam sine offensa proferantur, hoc accidit nobis quorum animi ex longo morbo reficiuntur…
[…]
Mi domandi cosa dovresti evitare più di ogni cosa? La folla. Non ti affiderai tranquillamente ad essa. Io certamente ammetto la mia debolezza: quando torno a casa non sono mai lo stesso che ne è uscito. Si rompe l’equilibrio che avevo già raggiunto; ritorna qualcuno dei vizi che avevo messo in fuga. Quello che capita agli ammalati, che una lunga infermità riduce al punto che non possono mai uscire senza risentirne, questo avviene a noi, i cui animi si stanno riprendendo in seguito ad una lunga malattia.
Epistulae ad Lucilium ,par. 68, libro VII
Epistulae ad Lucilium n.VII, Libro I
Nelle Epistulae di Seneca il tema della solitudine affiora costantemente:
è necessario sottrarsi sia al
contatto con la folla che, animalesca condiziona il singolo
annullandone l’identità, come al caos della vita pubblica, che stordisce
come accade durante una malattia.
Nel Medioevo…
Con
l’avvento del Cristianesimo, la solitudine diventa condizione che, nel
raccoglimento della preghiera/della penitenza (talvolta nella separazione fisica dal
mondo come per gli eremiti) amplia la visione su se stessi e sulla vita e consente di ascendere a Dio.
Nel solco
della tradizione cristiana, nel De vita solitaria e nel De otio
religioso, opere in latino composte entrambe tra i 1347 e il 1357, il poeta-chierico
Francesco Petrarca descrive la solitudine come condizione indispensabile a chi
voglia ritrovare se stesso avvicinandosi al contempo a Dio: solo nella rinuncia alle ambizioni e alle passioni mondane, dunque
solo nell’ascesi, è possibile l’equilibrio interiore. Un’idea di solitudine plasticamente
rappresentata in quel “Solo e pensoso” che è tra i sonetti più noti del Canzoniere:
Solo et
pensoso i piú deserti campi
vo
mesurando a tardi passi et lenti,
et gli
occhi porto per fuggire intenti
ove
vestigio human l’arena stampi.
Altro
schermo non trovo che mi scampi
dal
manifesto accorger de le genti,
perché
negli atti d’alegrezza spenti
di fuor si
legge com’io dentro avampi
sí ch’io
mi credo omai che monti et piagge
et fiumi
et selve sappian di che tempre
sia la mia
vita, ch’è celata altrui.
Ma pur sí
aspre vie né sí selvagge
cercar non
so ch’Amor non venga sempre
ragionando
con meco, et io co llui
vo mesurando a tardi passi et lenti,
et gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio human l’arena stampi.
dal manifesto accorger de le genti,
perché negli atti d’alegrezza spenti
di fuor si legge com’io dentro avampi
et fiumi et selve sappian di che tempre
sia la mia vita, ch’è celata altrui.
cercar non so ch’Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io co llui
F. Petrarca, Canzoniere, Solo e pensoso
Turbato dalla vita chiassosa e futile della città, Petrarca trova rifugio nella quiete di un paesaggio solitario: l’incedere dei suoi passi, che tardi e lenti misurano lo spazio, scandisce il ritmo dei pensieri che scandagliano l’anima, restituendone sofferenza e contraddizioni.Tacito
orror di solitaria selva
di sì dolce tristezza il cor mi bea,
che in essa al par di me non si ricrea
tra’ figli suoi nessuna orrida belva.
E quanto
addentro più il mio piè s’inselva,
tanto più
calma e gioia in me si crea;
onde
membrando com’io là godea,
spesso mia
mente poscia si rinselva.
Non ch’io gli uomini abborra, e che in me
stesso
mende non
vegga, e più che in altri assai
né ch’io
mi creda al buon sentier più appresso:
ma non mi
piacque il vil mio secol mai,
e dal
pesante regal giogo oppresso,
sol nei
deserti tacciono i miei guai.
Vittorio
Alfieri, Rime, Tacito orror di solitaria selva
In Alfieri
l’io trova conforto nella solitudine di un luogo selvaggio-solitario e così
l’animo gravato dall’angoscia per le sorti dell’Italia oppressa dalla tirannide
-regal giogo- per un attimo si fa più leggero.
di sì dolce tristezza il cor mi bea,
che in essa al par di me non si ricrea
tra’ figli suoi nessuna orrida belva.
tanto più calma e gioia in me si crea;
onde membrando com’io là godea,
spesso mia mente poscia si rinselva.
mende non vegga, e più che in altri assai
né ch’io mi creda al buon sentier più appresso:
e dal pesante regal giogo oppresso,
sol nei deserti tacciono i miei guai.