Nata
come appendice all’ultima edizione dei Promessi sposi (1840), Storia
della colonna infame ricostruisce l’infame vicenda del processo agli
untori, persone senza colpa alcuna che, accusate di diffondere la peste o
quantomeno di facilitarne la diffusione ungendo con impiastri venefici i muri
delle città o le porte delle case, nel 1630 vennero torturate, sommariamente processate e mandate a
morte.
All’epoca
dei fatti bastava pochissimo per essere additati come untori, Manzoni ne
dà conto nel cap. XXXII del romanzo: era sufficiente mostrare un atteggiamento
per qualche motivo sospetto, camminare rasentando il muro, sostare presso la
porta di un’abitazione, vestire in modo inusuale o esser colti nell’atto di
spolverare una panca in chiesa prima di sedervisi (1) per essere malmenati o arrestati
andando incontro a morte certa.
Renzo
stesso, che sappiamo essere ragazzo timorato di Dio, rischiò grosso quando a
Milano, dove si era recato in cerca di Lucia (cap. XXXIV dei Promessi sposi)
andò spedito incontro ad un cristiano per chiedergli un’informazione e
quello, credendolo un untore collo
scatolino dell’unto, o il cartoccino della polvere (non era ben certo qual de’
due) in mano, lo scacciò via agitando il bastone.
La
peste falcidiava vite, la gente era terrorizzata e i protofisici -gli scienziati dell’epoca- ignoravano le cause dell’epidemia: connubio perfetto
perché si scorgessero nemici ovunque e si individuasse il capro espiatorio nel
primo malcapitato.
Vagliando
accuratamente i verbali del processo, in Storia della colonna infame A. Manzoni
ripercorre le tappe della drammatica vicenda giudiziaria a carico
dei presunti untori Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora.
Tutto
ha inizio a Milano quando Caterina Rosa una mattina scorge dalla propria
finestra uno sconosciuto che, con in mano un foglio di carta, cammina in strada
rasentando i muri e talvolta vi appoggia le mani. Parendole
quello un comportamento sospetto, Caterina ne informa le autorità.
Lo
sconosciuto denunciato come presunto untore è Guglielmo Piazza -commissario del
tribunale di sanità- che, interrogato, ammette che camminava lungo i muri per
ripararsi dalla pioggia e dichiara di essersi appoggiato più volte al muro per
ripulirsi dell’inchiostro con cui involontariamente si era sporcato le mani.
Arrestato,
per evitare la tortura Piazza denuncia a sua volta un innocente, il barbiere G.
Mora, che per mestiere maneggia quotidianamente unguenti e pomate.
Il
Mora è arrestato, sotto tortura fa i nomi di presunti complici e con loro è
giustiziato nell’agosto del 1630.
Ma dalla storia, per quanto possa esser
succinta, d’un avvenimento complicato, d’un gran male fatto senza ragione da
uomini a uomini, devono necessariamente potersi ricavare osservazioni più
generali, e d’un’utilità, se non così immediata, non meno reale. Anzi, a
contentarsi di quelle sole che potevan principalmente servire a quell’intento
speciale, c’è pericolo di formarsi una nozione del fatto, non solo dimezzata, ma
falsa, prendendo per cagioni di esso l’ignoranza de’ tempi e la barbarie della
giurisprudenza, e riguardandolo quasi come un avvenimento fatale e necessario;
che sarebbe cavare un errore dannoso da dove si può avere un utile
insegnamento... Certo, non era
un effetto necessario del credere all’efficacia dell’unzioni pestifere, il
credere che Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora le avessero messe in opera;
come dell’esser la tortura in vigore non era effetto necessario che fosse fatta
soffrire a tutti gli accusati, né che tutti quelli a cui si faceva soffrire,
fossero sentenziati colpevoli. Verità che può parere sciocca per troppa evidenza;
ma non di rado le verità troppo evidenti, e che dovrebbero esser sottintese,
sono in vece dimenticate; e dal non dimenticar questa dipende il giudicar
rettamente quell’atroce giudizio. ...Non vogliamo certamente (e sarebbe un
tristo assunto) togliere all’ignoranza e alla tortura la parte loro in
quell’orribile fatto: ne furono, la prima un’occasion deplorabile, l’altra un
mezzo crudele e attivo, quantunque non l’unico certamente, nè il principale. Ma
crediamo che importi il distinguerne le vere ed efficienti cagioni, che furono
atti iniqui, prodotti da che, se non da passioni perverse?
Dio solo ha potuto distinguere qual più, qual
meno tra queste abbia dominato nel cuor di que’ giudici, e soggiogate le loro
volontà: se la rabbia contro pericoli oscuri, che, impaziente di trovare un
oggetto, afferrava quello che le veniva messo davanti; che aveva ricevuto una
notizia desiderata, e non voleva trovarla falsa; aveva
detto: finalmente! e non voleva dire: siam da capo; la
rabbia resa spietata da una lunga paura, e diventata odio e puntiglio contro
gli sventurati che cercavan di sfuggirle di mano; o il timor di mancare a
un’aspettativa generale, altrettanto sicura quanto avventata, di parer meno
abili se scoprivano degl’innocenti, di voltar contro di sè le grida della
moltitudine, col non ascoltarle; il timore fors’anche di gravi pubblici mali
che ne potessero avvenire: timore di men turpe apparenza, ma ugualmente
perverso, e non men miserabile, quando sottentra al timore, veramente nobile e
veramente sapiente, di commetter l’ingiustizia. Dio solo ha potuto vedere se
que’ magistrati, trovando i colpevoli d’un delitto che non c’era, ma che si
voleva, furon più complici o ministri d’una moltitudine che, accecata, non
dall’ignoranza, ma dalla malignità e dal furore, violava con quelle grida i
precetti più positivi della legge divina, di cui si vantava seguace. Ma la
menzogna, l’abuso del potere, la violazion delle leggi e delle regole più note
e ricevute, l’adoprar doppio peso e doppia misura, son cose che si posson
riconoscere anche dagli uomini negli atti umani; e riconosciute, non si posson
riferire ad altro che a passioni pervertitrici della volontà; nè, per ispiegar
gli atti materialmente iniqui di quel giudizio, se ne potrebbe trovar di più
naturali e di men triste, che quella rabbia e quel timore.(...) Ma quando, nel guardar più
attentamente a que’ fatti, ci si scopre un’ingiustizia che poteva esser veduta
da quelli stessi che la commettevano, un trasgredir le regole ammesse anche da
loro, dell’azioni opposte ai lumi che non solo c’erano al loro tempo, ma che
essi medesimi, in circostanze simili, mostraron d’avere, è un sollievo il
pensare che, se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu
per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa,
ma una colpa; e che di tali fatti si può bensì esser forzatamente vittime, ma
non autori.
Attribuire
le cause di quanto accaduto all’ignoranza dei tempi o alla barbarie di certi
costumi, secondo Manzoni sarebbe un pericoloso errore perché significherebbe affermare,
fatalisticamente, che ciò che è stato doveva necessariamente accadere, le cose
non potevano che andare come andarono.
In
realtà, Guglielmo Piazza, Giangiacomo Mora e con loro tutti i presunti untori furono vittime innocenti di un errore giudiziario dovuto alla superficialità e alla malafede dei giudici: essi avrebbero dovuto e potuto accertare la verità -ne avevano i mezzi-, ma scelsero di non vedere, preferirono non capire; avrebbero potuto
accorgersi dell’ingiustizia che perpetravano infrangendo regole e contravvenendo ai lumi che non solo
c’erano al loro tempo, ma che essi medesimi, in circostanze simili, mostraron
d’avere, ma non vollero farlo perché impazienti di trovare finalmente
ciò che cercavano e per timore di deludere un’aspettativa generale.

Arrestato, per evitare la tortura Piazza denuncia a sua volta un innocente, il barbiere G. Mora, che per mestiere maneggia quotidianamente unguenti e pomate.
Il Mora è arrestato, sotto tortura fa i nomi di presunti complici e con loro è giustiziato nell’agosto del 1630.
Ma dalla storia, per quanto possa esser
succinta, d’un avvenimento complicato, d’un gran male fatto senza ragione da
uomini a uomini, devono necessariamente potersi ricavare osservazioni più
generali, e d’un’utilità, se non così immediata, non meno reale. Anzi, a
contentarsi di quelle sole che potevan principalmente servire a quell’intento
speciale, c’è pericolo di formarsi una nozione del fatto, non solo dimezzata, ma
falsa, prendendo per cagioni di esso l’ignoranza de’ tempi e la barbarie della
giurisprudenza, e riguardandolo quasi come un avvenimento fatale e necessario;
che sarebbe cavare un errore dannoso da dove si può avere un utile
insegnamento... Certo, non era
un effetto necessario del credere all’efficacia dell’unzioni pestifere, il
credere che Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora le avessero messe in opera;
come dell’esser la tortura in vigore non era effetto necessario che fosse fatta
soffrire a tutti gli accusati, né che tutti quelli a cui si faceva soffrire,
fossero sentenziati colpevoli. Verità che può parere sciocca per troppa evidenza;
ma non di rado le verità troppo evidenti, e che dovrebbero esser sottintese,
sono in vece dimenticate; e dal non dimenticar questa dipende il giudicar
rettamente quell’atroce giudizio. ...Non vogliamo certamente (e sarebbe un
tristo assunto) togliere all’ignoranza e alla tortura la parte loro in
quell’orribile fatto: ne furono, la prima un’occasion deplorabile, l’altra un
mezzo crudele e attivo, quantunque non l’unico certamente, nè il principale. Ma
crediamo che importi il distinguerne le vere ed efficienti cagioni, che furono
atti iniqui, prodotti da che, se non da passioni perverse?
Dio solo ha potuto distinguere qual più, qual
meno tra queste abbia dominato nel cuor di que’ giudici, e soggiogate le loro
volontà: se la rabbia contro pericoli oscuri, che, impaziente di trovare un
oggetto, afferrava quello che le veniva messo davanti; che aveva ricevuto una
notizia desiderata, e non voleva trovarla falsa; aveva
detto: finalmente! e non voleva dire: siam da capo; la
rabbia resa spietata da una lunga paura, e diventata odio e puntiglio contro
gli sventurati che cercavan di sfuggirle di mano; o il timor di mancare a
un’aspettativa generale, altrettanto sicura quanto avventata, di parer meno
abili se scoprivano degl’innocenti, di voltar contro di sè le grida della
moltitudine, col non ascoltarle; il timore fors’anche di gravi pubblici mali
che ne potessero avvenire: timore di men turpe apparenza, ma ugualmente
perverso, e non men miserabile, quando sottentra al timore, veramente nobile e
veramente sapiente, di commetter l’ingiustizia. Dio solo ha potuto vedere se
que’ magistrati, trovando i colpevoli d’un delitto che non c’era, ma che si
voleva, furon più complici o ministri d’una moltitudine che, accecata, non
dall’ignoranza, ma dalla malignità e dal furore, violava con quelle grida i
precetti più positivi della legge divina, di cui si vantava seguace. Ma la
menzogna, l’abuso del potere, la violazion delle leggi e delle regole più note
e ricevute, l’adoprar doppio peso e doppia misura, son cose che si posson
riconoscere anche dagli uomini negli atti umani; e riconosciute, non si posson
riferire ad altro che a passioni pervertitrici della volontà; nè, per ispiegar
gli atti materialmente iniqui di quel giudizio, se ne potrebbe trovar di più
naturali e di men triste, che quella rabbia e quel timore.(...) Ma quando, nel guardar più
attentamente a que’ fatti, ci si scopre un’ingiustizia che poteva esser veduta
da quelli stessi che la commettevano, un trasgredir le regole ammesse anche da
loro, dell’azioni opposte ai lumi che non solo c’erano al loro tempo, ma che
essi medesimi, in circostanze simili, mostraron d’avere, è un sollievo il
pensare che, se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu
per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa,
ma una colpa; e che di tali fatti si può bensì esser forzatamente vittime, ma
non autori.
In realtà, Guglielmo Piazza, Giangiacomo Mora e con loro tutti i presunti untori furono vittime innocenti di un errore giudiziario dovuto alla superficialità e alla malafede dei giudici: essi avrebbero dovuto e potuto accertare la verità -ne avevano i mezzi-, ma scelsero di non vedere, preferirono non capire; avrebbero potuto accorgersi dell’ingiustizia che perpetravano infrangendo regole e contravvenendo ai lumi che non solo c’erano al loro tempo, ma che essi medesimi, in circostanze simili, mostraron d’avere, ma non vollero farlo perché impazienti di trovare finalmente ciò che cercavano e per timore di deludere un’aspettativa generale.
I giudici dell’epoca furono dunque pienamente responsabili di quelle atrocità, sacrificarono degli innocenti piuttosto che intraprendere la strada senz’altro più difficile della ricerca verso la verità.
Il punto è proprio questo. Manzoni crede nel libero arbitrio: l’uomo ha sempre la possibilità di scegliere, può decidere cosa fare di sé e quale direzione imprimere alla propria vita; può scegliere di non vedere ciò che è evidente e di non sentire ciò che urla forte; può scatenare guerre, massacrare, perseguitare; può annientare l’altro solo perché altro, può commettere le atrocità peggiori ma lo fa scientemente, dunque ne ha piena responsabilità di fronte a se stesso e alla Storia.
Questa
la grande lezione consegnataci da Manzoni su come vanno le cose ma non dovrebbero
andare, su come siamo e non dovremmo essere…
(1) Promessi sposi, cap. XXXII. Nella chiesa di sant’Antonio, in un giorno di
non so quale solennità, un vecchio più che ottuagenario, dopo aver pregato
ginocchioni, volle sedersi; e prima, colla cappa spolverò la panca. “Quel
vecchio ugne le panche!” sclamarono ad una voce alcune donne che vider l’atto.
La gente che si trovava in chiesa (in chiesa!), fu addosso al vecchio: gli
stracciano i bianchi capelli, lo pestan di pugni e di calci, lo strascinano
fuori semivivo…
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