I
promessi sposi, capolavoro di Manzoni in 38 lunghi capitoli,
croce e delizia di intere generazioni di studenti, è il romanzo storico in cui
si narrano le vicissitudini di due giovani prossimi alle nozze: Renzo
Tramaglino e Lucia Mondella.
I
protagonisti vivono nei pressi di Lecco, lungo la sponda del lago di Como che volge a mezzogiorno. L’anno è 1628 e l’Italia è
assoggettata alla dominazione spagnola, giusto per non farsi mancare niente.
I
preparativi per il matrimonio fervono, quand’ecco che don Rodrigo, signorotto
spagnolo innamorato di Lucia, s’adopera per mandare all’aria il matrimonio e
invia due dei suoi bravi da don Abbondio affinché lo persuadano, con le
buone o con le cattive, ad annullare la cerimonia.
Per
proteggere Lucia dalla corte insistente -diciamo pure molestie- di don Rodrigo,
il buon fra Cristoforo, frate filantropo che paternamente si rende cura dei bisognosi,
colloca la ragazza presso il monastero di Monza, dove è controllata a vista da
Gertrude, la monaca più importante del monastero ma anche quella dalla storia
più torbida.
Rapita
dal monastero per ordine di don Rodrigo, che si giova della complicità di
Gertrude, Lucia viene condotta prigioniera presso il castello dell’Innominato,
criminale di prim’ordine in combutta con tutti i bellimbusti della zona.
Renzo
invece è a Milano -dove gliene accadono di tutti i colori- e poi fuggitivo
attraverso il Milanese perché sospettato di essere coinvolto nei tumulti per il
rincaro del pane.
Dopo
una serie infinita di vicissitudini, compresa la peste che risparmia i buoni ma
falcia i cattivi, i due possono coronare il loro sogno d’amore e convolare a
giuste nozze. Questa
in sintesi la trama a beneficio di quei pochissimi che non avessero mai letto
il romanzo. Salvo
che per la lentezza estenuante (diciamocelo) della narrazione quando è
interrotta da pause descrittive così lunghe da tramortire anche i manzoniani più convinti,
l’opera è un capolavoro indiscusso per la precisione con la quale è restituito
il quadro storico dell’epoca, per l’uso di una lingua letteraria finalmente
italiana e per molti altri motivi sui quali sorvoliamo.
Nonostante
la drammaticità degli eventi narrati, come la peste e la morte ritratte nei cadaveri abbandonati
lungo le vie delle città o in quello della piccola Cecilia in pagine rimaste
giustamente nella storia della letteratura di tutti i tempi, l’opera non è
priva di comicità-ironia e Manzoni rivela in diverse occasioni un humor (sia pure un tantino snob) certamente apprezzabile.
Le
sue ironiche metafore sono entrate nell’uso comune:don
Abbondio non era nato con un cuor di leone; era come un vaso di terracotta
costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro;equegli unici 25 lettori che costituirebbero il pubblico di
Manzonisono solo alcuni
esempi dell’ironia manzoniana.
I tipi umani
Tuttavia,
ciò che rende l’opera straordinaria è la maestria con cui sono rappresentati i personaggi, un inventario di tipi umani sorprendentemente vivi e veri: qualcuno
di loro somiglia al nostro vicino di casa, qualcun altro al parente rompiscatole
che tutti evitiamo, altri ancora somigliano a noi stessi e per questo un po’ ci
fanno vergognare. Nella
classifica dei personaggi più comici e un tantino antipatici, il primo posto è
per Don Abbondio, un concentrato di codardia, furbizia e opportunismo che lo
rendono unico anche per comicità.
Indimenticabile
la scena dell’incontro con i bravi: il curato si guarda intorno cercando un via
di fuga, assume l’aria distratta evitando di guardare da quella parte perché (come il bambino che chiude gli occhi davanti a ciò che non gli piace), magari se
finge di non vederli loro, i bravi, non lo notano;infine, quando capisce che non c’è modo di
evitarli, affretta il passo perché le situazioni incresciose vanno prese di
petto, prima si affrontano meglio è. Ciascuno di noi lo sa.
Comico
il viaggio a cavallo di una mula quando, ritrovata Lucia ormai salva, don Abbondio
e gli altri, compresi i bravi dell’Innominato come scorta, la riaccompagnano
finalmente a casa. Preoccupato come al solito solo della propria pelle, don
Abbondio maledice la mula che per dispetto mette le zampe sull’orlo di
un salto -ma che per lui è precipizio-, quando potrebbe seguire
il sentiero che è bello largo
…un salto, o come pensava lui, un precipizio. —
Anche tu, — diceva tra sè alla bestia, — hai quel maledetto gusto d’andare a
cercare i pericoli, quando c’è tanto sentiero! —cap XXIV
C’è
Perpetua-radio-serva, la pettegola che sa tutto di chiunque: abilissima nell’estorcere
un segreto, giura di custodirlo a costo della vita,
salvo disattendere il giuramento e spifferare tutto al primo che le capita a tiro, naturalmente raccomandando
discrezione ma sapendo perfettamente che il depositario del suo segreto andrà
a sua volta a rivelarlo a qualcun altro e via così
a macchia d’olio fino a quando il segreto avrà oltrepassato i confini regionali,
quanto meno.
Lucia,
angelicata timorata di Dio. Brava ragazza meritevole di rispetto, ma dalla
lacrima facile e timida al punto che non riesce a sostenere lo sguardo del futuro
sposo senza arrossire. Immaginiamo abbia smesso di arrossire dopo il matrimonio.
L’Azzeccagarbugli,
l’avvocato servo del potere che, esperto conoscitore dei mezzucci più biechi, sa come farla passar liscia ai malfattori, ma ma non muove un dito per gli onesti.
Donna
Prassede, la nobildonna bigotta che, un po’ per noia un po’ per guadagnarsi il
paradiso, cerca la realizzazione di sé nel far del bene al prossimo anche
quando il prossimo non glielo chiede: è così simile alle privilegiate dei giorni
d’oggi che organizzano eventi benefici per averne visibilità o per tacitare la
propria coscienza.
Suo
marito don Ferrante, che per sfuggire al tormento di una moglie petulante e rompiscatole nonché per sottrarsi alla realtà, si rifugia nel mondo dei libri e studia, legge, ubriacandosi di sapere.
C’è
il sarto, che intenerisce e fa sorridere per l’imbarazzo e il timore
reverenziale al cospetto del cardinale Federigo Borromeo e per quel “si figuri”in risposta al ringraziamento ricevuto per aver ospitato Lucia:…“si figuri”, banale e stupido a dirsi, il
sartonon se lo perdonerà mai.
E
poi vi è la folla: quell’informe somma di tipi umani in cui ciascuno, smarrendo
la propria identità e la ragione, s’aggrega all’altro come in gregge dando
luogo alle peggiori cose, nella convinzione che se la responsabilità è di tutti allora non è di nessuno: ecco che allora la folla inferocita, ancor più
pericolosa se resa ottusa dall’ignoranza, si produce nella violenza dell’assalto
ai forni o nella crudeltà della caccia agliuntori, il nemico inesistente
ma necessario in ogni epoca perché altrimenti non si saprebbe con chi prendersela.
Realtà
tristemente attualissima.
Manzoni,
fine osservatore dell’uomo, psicologo pur senza esserlo, attraverso i suoi personaggi
fotografa vizi e virtù dell’uomo di ogni tempo, restituendoci un’idea perfetta di
quel guazzabuglio complesso che è l’animo umano.
Siamo
tutti un po’ don Abbondio, un po’ Lucia, un po’ Azzeccagarbugli, per poi diventare
folla cieca e irrazionale quando se ne crea l’occasione.
Certamente a qualcuno accade più frequentemente che ad altri.
Allora,
sia pur noiosetto a tratti – senza offesa per Manzoni- estrapolato dal contesto
e liberato dai riferimenti storici del caso, il romanzo ha ancora molto da insegnare (e Manzoni lo fa bonariamente e ironicamente) su come siamo e come non dovremmo
essere, su come vanno le cose e non dovrebbero andare.
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