La capra
È forse la poesia più nota tra quelle del Canzoniere di Saba.
Ho parlato a una capra.
Era sola sul prato, era legata.
Sazia d’erba, bagnata
dalla pioggia, belava.
Quell’uguale belato era fraterno
al mio dolore. Ed io risposi, prima
per celia, poi perché il dolore è eterno,
ha una voce e non varia.
Questa voce sentiva
gemere in una capra solitaria.
In una capra dal viso semita
sentiva querelarsi ogni altro male,
ogni altra vita.
Il testo, metricamente costituito da tre
strofe di endecasillabi e settenari, ad eccezione dell’ultimo che è un
quinario, è piuttosto semplice nello stile e nel lessico quasi sempre di uso
quotidiano.
Era sola sul prato, era legata.
Sazia d’erba, bagnata
dalla pioggia, belava.
al mio dolore. Ed io risposi, prima
per celia, poi perché il dolore è eterno,
ha una voce e non varia.
Questa voce sentiva
gemere in una capra solitaria.
sentiva querelarsi ogni altro male,
ogni altra vita.
Il poeta vede una capra: è sul prato, solitaria, bagnata
di pioggia e sazia d’erba. La capra bela, il poeta che l'osserva risponde a quel
verso lamentoso in un dialogo che non ha bisogno di parole: l'uomo e l'animale si intendono perché parlano il linguaggio universale della pena di vivere.
Quasi a simboleggiare tutto il dolore del mondo, il volto semita della capra: una chiara allusione -Saba era ebraico di origine- alla storia di esclusione e sofferenze subita dagli Ebrei, il più perseguitato dei popoli e all'epoca sbeffeggiato da certe caricature razziste che ne ridicolizzavano i tratti somatici accostandoli a capre e/o scimmie.
Il pessimismo di Saba
La vita è dunque dolore cosmico, l'animale soffre al pari dell’uomo per il solo motivo di esistere: un’idea presente in molta letteratura e in altrettanta filosofia.
Così scriveva Leopardi in Canto notturno di un pastore errante dell'Asia:
O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d’affanno
Quasi libera vai;
Ch’ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi…
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d’affanno
Quasi libera vai;
Ch’ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi…
G. Leopardi, Idilli, Canto notturno di un pastore errante dell'Asia
Il poeta invidia il gregge, che privo di ragione è ignaro del proprio destino di morte; libero dalla maledizione della memoria, scorda immediatamente patimenti e stenti subiti; non ha coscienza della propria sofferenza e vive l’attimo senza l'affanno di ciò che è stato o di ciò che sarà.
Così scrive Nietzsche nella Seconda considerazione inattuale:
Osserva il gregge che pascola dinnanzi a te:
non sa che cosa sia ieri, che cosa sia oggi; salta intorno, mangia, riposa,
digerisce, salta di nuovo, e così dal mattino alla sera e giorno dopo giorno,
legato brevemente con il suo piacere e con la sua pena al piuolo, per così
dire, dell'attimo, e perciò né triste né annoiato.
F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia
per la vita
Legato brevemente al piacere o al dolore dell'attimo, il gregge mangia, riposa, digerisce; inconsapevole della propria precarietà, non ha pena. Nietzsche come Leopardi.
Non è così per Saba.
La capra umanizzata dal volto semita, sola, legata, bagnata, non è beatamente appagata dall'attimo, legata a brevi piaceri o brevi dolori presto dimenticati; non suscita l'invidia del poeta perché priva d'affanno se ne va libera (Leopardi), al contrario essa geme nella propria sofferenza (Questa voce sentiva gemere in una capra solitaria) e il suo belato lamentoso, in cui sembra racchiuso il male di ogni vita (sentiva querelarsi ogni altro male, ogni altra vita) diventa emblema del dolore universale.
Il componimento racchiude in pochi versi la
visione della vita del poeta, un pessimismo lucido e coerente, tuttavia libero da inutili vittimismi.
Il poeta ha le sue giornate contate,
come tutti gli uomini; ma quanto,
quanto variate!
….
Il poeta ha le sue giornate contate,
come tutti gli uomini; ma quanto,
quanto beate!U. Saba, Il poeta
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