Quale sia l’origine del Male e come esso possa conciliarsi con l’esistenza di Dio è questione dibattuta da sempre in filosofia come nella letteratura.
Platone non ha dubbi: Dio, che
è causa solo di Bene perché Egli stesso è Bene infinito, non può aver creato il
Male. Dunque Egli è innocente: Theòs Anaítios (Repubblica X, mito di Er) e il male è
frutto della libera scelta degli uomini.
Anche secondo Sant’Agostino (Confessioni) Dio non è causa del Male, tuttavia ne è
l’origine: Egli ci ha creati liberi e la libertà è il bene superiore che si
consegue nella scelta tra il bene e il male. Se il male non esistesse, se
l’uomo non fosse capace di peccare, egli agirebbe necessariamente secondo il
bene, non vi sarebbe scelta, dunque non vi sarebbe libertà.
San Tommaso affronta la
questione del male in Quaestio disputata de Malo dove, in piena sintonia
con sant’Agostino, afferma che Dio è bene infinito, il male pertanto origina
dal comportamento degli individui che lo compiono per ignoranza, per ignavia o
per malizia.
Il richiamo alla responsabilità e al libero arbitrio, forte in Agostino come in Tommaso, attraversa tutta la letteratura cristiana: nelle pagine del Secretum un tormentato Petrarca riconosce il proprio limite e il proprio peggior peccato in quella debolezza della volontà che gli impedisce di volere il bene, troppo spesso preferendo anteporgli il male che è nella futilità, nelle passioni, nell’egoismo (il desiderio di gloria, l'amore per Laura ecc.); nella sua Commedia Dante passa in rassegna l’intera casistica dei peggiori mali/peccati dell’umanità e non fa sconti all’uomo, che è l’unico responsabile del male; e così via fino al cattolicissimo Manzoni che, pur nell’ambito di una visione provvidenzialistica della storia, insiste sul ruolo della responsabilità umana persino in situazioni che sembrerebbero escluderla: la peste che infuriò nel XVII secolo ed è raccontata nei Promessi sposi certo non fu causata dall'uomo, tuttavia l’ignoranza, il pregiudizio e la superficialità con la quale gli uomini gestirono l'emergenza ne agevolarono la diffusione e ne moltiplicarono gli effetti.
Leibniz. Il male nel migliore dei mondi possibili
Che Dio sia innocente e che tutta la responsabilità del male ricada sugli uomini è la convinzione di Leibniz, la cui Teodicea nasce proprio con l’intento di scagionare Dio e dimostrare che Egli non è causa del male.
Secondo l’idea di Leibniz -idea che egli mutua da Agostino- la realtà è l’unione di due parti, una positiva e una privativa.
Dio, che è Essere perfetto, infinito e positivo, è autore di tutte le perfezioni, vale a dire di tutte le realtà positive, mentre la privazioni/limitazioni originano dalla imperfezione originaria delle creature, dalla loro natura finita/imperfetta. Il male non è che la privazione -assenza di positività-, intimamente legata alla natura finita degli individui.
Nell’ideare il mondo per poi
dargli vita, Dio calcola preventivamente (volontà antecedente) ciò
che di positivo e di privativo è nell’essenza di tutte le cose in modo che
dalla combinazione delle due parti nasca il maggior bene possibile e che il
mondo risulti il migliore dei mondi possibili.
In quanto privazione/mancanza, il male di per sé è nulla, tuttavia quando questa privazione s’innesti su
altre mancanze e agisca congiuntamente ad altre cose -l’educazione, la
conversazione, l’esempio (cfr, Saggi di teodicea), il suo potenziale
distruttivo prende corpo e si traduce in male concreto.
Ciò è da Dio reso possibile
-ma non causato- nella prospettiva che dal male possa nascere un bene
maggiore.
Ne consegue che all’uomo non rimane che accettare il male e le cose
così come sono, sopportare stoicamente la sofferenza nell’idea che essa
rientri in un piano finalisticamente orientato ad un bene superiore.
La critica di Voltaire
L’innocenza di Dio, che nulla
avrebbe a che vedere con il male, e la leibniziana idea che il mondo sia il
migliore tra tutti i mondi possibili non convincono Voltaire.
Certamente, da illuminista egli non può non riconoscere la responsabilità dell’uomo: molti mali nascono da scelte errate, dalla superstizione, dall’intolleranza, dall’errore che è contro la Ragione.
Tuttavia, esistono mali più grandi dell’uomo e indipendenti dalle sue scelte, catastrofi dalle proporzioni immani che non possono essere addebitate all’uomo.
Nel romanzo Candido, ovvero l’ottimismo e poi nel Poemetto sul terremoto di Lisbona, la teodicea di Leibniz è oggetto di critica feroce: com’è possibile che il nostro sia il migliore dei mondi quando sofferenza e male lo rendono invivibile? Candido, il protagonista dell’omonimo romanzo, ingenuamente abbocca alla leibniziana filosofia del precettore Pangloss fin tanto che vive al riparo tra le mura di un castello dove la vita scorre placida; quando poi da quel castello è scacciato ed è costretto a fare esperienza del mondo, egli è bastonato, perseguitato, deriso, sperimenta il dolore, la fame, l’ingiustizia, la violenza di catastrofi naturali imprevedibili. È questo il migliore dei mondi di cui gli parlava Pangloss? Ha un bel dire Pangloss quando sostiene che il male presente sulla terra punta ad un bene superiore se nell’attesa di esso bisogna patire le peggiori sofferenze e desiderare di non essere mai nati.
Nel Poemetto sul
terremoto che nel novembre nel 1755 distrusse la città di Lisbona causando
migliaia di morti, Voltaire ancora una volta attacca violentemente
l’ottimismo leibniziano -e di tutti quei filosofi fallaci secondo i quali
tutto è bene- scagliandosi altresì contro l’idea cristiana che il dolore
sia giusta espiazione dei peccati.
“Sventurati uomini! Infelice
terra! / Eterna sopportazione di inutili dolori! / Filosofi fallaci che
gridate: Tutto è bene / Accorrete, contemplate queste tremende rovine, / Queste
macerie, questi brandelli di carne e queste misere ceneri, / Queste donne,
questi fanciulli, l’uno sull’altro ammassati, / Queste membra disperse sotto i
marmi in frantumi (…) Quale crimine, quale peccato commisero questi bambini /
Schiacciati e ricoperti di sangue sul seno materno / (…) Lisbona è distrutta e
a Parigi si balla”.
Voltaire, Poemetto sul
terremoto di Lisbona
Quale colpa ha commesso un
bambino per meritare di morire sotto le macerie? Se Dio c’è ed è un Dio giusto,
come può permettere il male assoluto che è nella sofferenza degli innocenti?
Letto il poemetto sul
terremoto di Lisbona, Rousseau scrive così a Voltaire:
«Restando
al tema del disastro di Lisbona, converrete che, per esempio, la natura non
aveva affatto riunito in quel luogo ventimila case di sei o sette piani, e che
se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti più equamente
sul territorio e alloggiati in edifici di minor imponenza, il disastro sarebbe
stato meno violento o, forse, non ci sarebbe stato affatto. Ciascuno sarebbe
scappato alle prime scosse e si sarebbe ritrovato l'indomani a venti leghe di
distanza, felice come se nulla fosse accaduto. Ma bisogna restare, ostinarsi
intorno alle misere stamberghe, esporsi al rischio di nuove scosse, perché
quello che si lascia vale più di quello che si può portar via con sé. Quanti
infelici sono morti in questo disastro per voler prendere chi i propri abiti,
chi i documenti, chi i soldi? Forse non sapete, allora, che l'identità personale
di ciascun uomo non è diventata che la minima parte di se stesso e che non vale
la pena di salvarla quando si sia perduto tutto il resto?».
Nella lettera
indirizzata a Voltaire, Rousseau, da sempre critico feroce dell’avidità umana,
ne è certo, gli uomini sono corresponsabili in quella strage: costruire case dove non andrebbe fatto; attardarsi
nel tentativo di recuperare il più possibile di abiti, denari e masserizie
piuttosto che fuggire a gambe levate come il buon senso suggerirebbe di fare
già alla prima scossa di terremoto; l’irragionevolezza nell’affrontare la
catastrofe ne hanno accresciuto il potenziale distruttivo. Insomma, l’uomo ha le sue
belle responsabilità.
«Restando al tema del disastro di Lisbona, converrete che, per esempio, la natura non aveva affatto riunito in quel luogo ventimila case di sei o sette piani, e che se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti più equamente sul territorio e alloggiati in edifici di minor imponenza, il disastro sarebbe stato meno violento o, forse, non ci sarebbe stato affatto. Ciascuno sarebbe scappato alle prime scosse e si sarebbe ritrovato l'indomani a venti leghe di distanza, felice come se nulla fosse accaduto. Ma bisogna restare, ostinarsi intorno alle misere stamberghe, esporsi al rischio di nuove scosse, perché quello che si lascia vale più di quello che si può portar via con sé. Quanti infelici sono morti in questo disastro per voler prendere chi i propri abiti, chi i documenti, chi i soldi? Forse non sapete, allora, che l'identità personale di ciascun uomo non è diventata che la minima parte di se stesso e che non vale la pena di salvarla quando si sia perduto tutto il resto?».