Apertamente vicino agli ambienti della sinistra radicale sudamericana; amico di Fidel Castro anche quando altri se ne allontanavano; Premio Nobel per la letteratura nel 1982, Gabriel García Márquez (Aracataca 1927-Città del Messico 2014) nel 1967 pubblicò Cent’anni di solitudine, uno dei libri in assoluto più belli del Novecento.
Il romanzo, ascrivibile al genere
del realismo magico per la commistione tra la
dimensione leggendario-fantastica e la realtà dell’America latina, narra la
storia della famiglia Buendía lungo sette generazioni.
Il capostipite è José Arcadio Buendía.
Appena diciannovenne, con
una gran festa di banda e petardi durata tre giorni (cfr) José Arcadio
sposa la cugina Ursula.
Innamorati l’uno dell’altra, gli sposini potrebbero essere felici, ma nel timore che quell’unione tra consanguinei generi un mostro, -proprio come anni addietro era accaduto ad una zia, che aveva partorito un figlio munito di coda simile a quella del porco- la madre di Ursula convince la ragazza ad astenersi dal consumare il matrimonio.
Per
evitare che l’esuberante marito la prenda nel sonno, a tutela della propria
virtù Ursula ogni notte indossa un paio di calzoni fabbricati con tela per
vele, opportunamente rinforzati da un sistema di cinghie chiuse sul davanti da
una fibbia di ferro.
Accade un giorno che Prudencio Aguilar, venendo sconfitto da Buendìa in un combattimento tra galli e mal digerendo l’umiliazione, si lasci sfuggire un commento al veleno sulla scarsa virilità dell’altro. Buendìa torna a casa, prende la lancia che era appartenuta a suo nonno e con quella infilza il povero Prudencio. Quella stessa notte, intima ad Ursula di togliersi i calzoni della castità: accada quel che deve accadere e non se ne parli più.
Una
notte, non riuscendo a dormire, Ursula si alza e s’imbatte nello spettro di Prudencio; succede la stessa cosa anche il
giorno seguente e l’altro ancora. La notte in cui Buendìa lo trova a lavarsi
le ferite nella sua stessa stanza, decide che è ora di cambiare aria; e così, partiti
all’avventura, Ursula e José
Arcadio giungono nei pressi di un fiume.
Qui, abbattuti gli alberi e
ricavato spazio a sufficienza, José
Arcadio Buendìa
fonda Macondo, il villaggio che negli anni a venire andrà riempiendosi di
figli -legittimi e non-, nipoti, amanti, avventurieri, imbroglioni, cartomanti,
alchimisti, zingari: un
universo di solitudini in un tourbillon di passioni, amori, odi,
rivoluzioni, guerre civili, alluvioni e pestilenze che nel suo labirintico (1) caos è metafora
perfetta dell’esistenza umana.
La
peste che ruba l'identità
La
peste, fin dall’antichità oggettivazione metaforica del Male che è dentro e
fuori dell’uomo, compare qui nella forma di morbo che genera insonnia.
La
peste che ruba l'identità