C’è da supporre che quella dei fanfaroni (o smargiassi/spacconi/sbruffoni: la lingua italiana abbonda di sinonimi, puoi dire la stessa cosa in mille modi diversi) sia una specie antichissima. Si può ragionevolmente ipotizzare che già tra gli ominidi di qualcosa come quattro-cinque milioni di anni fa vi fosse chi, ancora malfermo sulle gambe per aver da poco conquistato la stazione eretta e pur con un quoziente di encefalizzazione irrisorio, grugnendo si vantasse per essere il miglior raccoglitore di bacche e per chissà cos’altro.
Per
l’inconsapevole vis comica che lo caratterizza, il gradasso è il
personaggio protagonista di molta letteratura a partire dall’antichità.
Il soldato fanfarone
La
maschera del soldato fanfarone che s’affermerà nella commedia dell’arte cinque-seicentesca si va delineando nei suoi tratti fondamentali già in Omero.
Nell’Iliade c’è infatti Tersite: è il peggiore di tutti gli Achei per bruttezza e vigliaccheria (1), ma è anche uno spaccone: insulta Agamennone accusandolo di giovarsi dei frutti della guerra senza muovere un dito (2) e più tardi, rivolgendosi ai propri compagni, li apostrofa -lui che certo non brilla per eroismo- come smidollati e rammolliti. Bastonato da Ulisse, che è irritato da tanta insolenza, il povero Tersite batte in ritirata e in lacrime corre a rintanarsi in un angolo.
Nella
commedia Gli Acarnesi di Aristofane (V sec. a. C.) c’è Lamaco, il
vanaglorioso generale ateniese (nella storia vera, con Nicia e Alcibiade
fu al comando della spedizione in Sicilia nell’ultima fase della guerra del
Peloponneso) che, ferito per essere rovinosamente caduto in un fosso, ai
compagni fornisce una versione alternativa dei fatti, riferendo di essere stato ferito in
battaglia (vv. 1190‑226).
Il
ritratto più esilarante del soldato fanfarone è tuttavia nel Miles gloriosus
(tra il III e il II sec. a. C.), commedia in cinque atti del
latino Plauto.
Plauto. Miles gloriosus
L’opera mette in scena la storia dell’amore tra la cortigiana Filocomasio e l’ateniese Pleusicle: i due vengono separati da Pirgopolinice che rapisce Filocomasio e la tiene presso di sé fino a quando con l’inganno gliela porteranno via.
Questa la trama ridotta all’osso.
Che il soldato Pirgopolinice sia un irriducibile
spaccone è chiaro fin dal primo atto:
(…)
Pirgopolinice. Procurate che il mio scudo sia più
splendente dei raggi del sole quando il cielo è terso, in modo che
all’occasione, sul campo di battaglia, abbagli la vista dei nemici. Io penso a
consolare la mia spada, che non si lamenti e non si deprima per il fatto che la
porto oziosa al mio fianco, mentre lei muore dalla voglia di fare a pezzi i
nemici. Ma questo Artotrogo dove si è cacciato?
Artotrogo. Accanto a un uomo forte e fortunato e
di aspetto regale. Lo stesso Marte non oserebbe mettersi alla pari con
te come guerriero, o paragonare il suo valore al tuo.
Pirgopolinice. Quello che ho salvato sui campi
parassitici, dove era comandante supremo Fanfaronomaco Arcimercenaride, nipote
di Nettuno?
Artotrogo. Ricordo. Quello con le armi d’oro, a
cui hai spazzato via le truppe con un soffio, come il vento fa con le foglie o
con un tetto di canne.
Pirgopolinice. Roba da niente.
Artotrogo. Certo, al confronto di quello che
potrei raccontare (inventando, s’intende). (Se qualcuno ha mai visto un uomo
più bugiardo e più vanaglorioso, disponga pure di me: mi consegno a lui
come schiavo; se non fosse per un piccolo particolare: da lui si mangia un
pasticcio d’olive che fa impazzire.)
Pirgopolinice. Dove sei?
Artotrogo. Eccomi. E quell’elefante in India, a
cui con un solo pugno hai spezzato un braccio?
Pirgopolinice. Come un braccio?
Artotrogo. Volevo dire una gamba.
Pirgopolinice. Eppure l’avevo colpito di malavoglia.
Artotrogo. Se avessi fatto sul serio, il tuo
braccio avrebbe trapassato col braccio la pelle e le viscere e sarebbe riuscito
fuori all’elefante per la bocca.
Pirgopolinice. Lasciamo perdere.
Artotrogo. Già; non vale proprio la pena che mi
racconti le tue prodezze, che conosco già. (È il ventre che mi crea
tutte queste seccature: devo allungare le orecchie per non allungare i denti e
confermare tutte le bugie che gli saltano in testa.)
Pirgopolinice. Cosa volevo dire …
Artotrogo. Lo so cosa vuoi dire; ricordo bene come
è successo.
Pirgopolinice. Successo cosa?
Artotrogo. Qualunque cosa sia.
Pirgopolinice. Ce l’hai?
Artotrogo. Il catalogo, vuoi dire? Ce l’ho, e
anche la penna.
Pirgopolinice. Sei molto bravo nell’adattare al mio il
tuo pensiero.
Artotrogo. È mio dovere studiare le tue intenzioni
e darmi da fare per subodorare qualunque cosa vuoi.
Pirgopolinice. Ricordi?
Artotrogo. Perfettamente: centocinquanta in
Cilicia, cento in Scitoladronia, trenta a Sardi, sessanta macedoni, questi
sono gli uomini che hai ucciso in un giorno solo.
Pirgopolinice. Quant’è il totale?
Artotrogo. Settemila.
Pirgopolinice. Sì, press’a poco. Tu sai far bene i
conti.
Artotrogo. Eppure non avevo scritto niente. Ho
fatto il conto a memoria.
Pirgopolinice. Hai una memoria ottima.
Artotrogo. Me la rinfrescano i banchetti.
Pirgopolinice. Se continuerai a comportarti così, non
ti mancherà mai da mangiare, ti metterò sempre a parte della mia mensa.
Artotrogo. E in Cappadocia, dove ne avresti uccisi
cinquecento in un colpo solo, se la spada non fosse stata smussata?
Pirgopolinice. Li ho lasciati vivere:
erano poveri fantaccini.
Artotrogo. Perché dovrei ripeterti quello che
tutti gli uomini sanno, che c’è un solo Pirgopolinice su questa terra,
invincibile per coraggio, per bellezza, per imprese? Tutte le donne ti amano, e
fanno bene, bello come sei. Come quelle che ieri mi hanno tirato per il
mantello.
Pirgopolinice. E cosa ti hanno detto?
Artotrogo. Mi chiedevano: “È Achille?” “No –
risposi io – è suo fratello.” E l’altra esclamò: “Quant’è bello e
aristocratico! Guarda come gli sta bene quella pettinatura. Sono proprio fortunate
quelle che vanno a letto con lui”.
Pirgopolinice. Questo dicevano?
Artotrogo. E tutte e due mi hanno pregato di farti
passare oggi di là, come in processione.
Pirgopolinice. Essere troppo bello è una disgrazia.
(…)
Plauto, Miles gloriosus vv. 1-78
in A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, Storia e testi della letteratura latina,
Zanichelli
Pirgopolinice. Procurate che il mio scudo sia più splendente dei raggi del sole quando il cielo è terso, in modo che all’occasione, sul campo di battaglia, abbagli la vista dei nemici. Io penso a consolare la mia spada, che non si lamenti e non si deprima per il fatto che la porto oziosa al mio fianco, mentre lei muore dalla voglia di fare a pezzi i nemici. Ma questo Artotrogo dove si è cacciato?
Artotrogo. Accanto a un uomo forte e fortunato e di aspetto regale. Lo stesso Marte non oserebbe mettersi alla pari con te come guerriero, o paragonare il suo valore al tuo.
Pirgopolinice. Quello che ho salvato sui campi parassitici, dove era comandante supremo Fanfaronomaco Arcimercenaride, nipote di Nettuno?
Artotrogo. Ricordo. Quello con le armi d’oro, a cui hai spazzato via le truppe con un soffio, come il vento fa con le foglie o con un tetto di canne.
Pirgopolinice. Roba da niente.
Artotrogo. Certo, al confronto di quello che potrei raccontare (inventando, s’intende). (Se qualcuno ha mai visto un uomo più bugiardo e più vanaglorioso, disponga pure di me: mi consegno a lui come schiavo; se non fosse per un piccolo particolare: da lui si mangia un pasticcio d’olive che fa impazzire.)
Pirgopolinice. Dove sei?
Artotrogo. Eccomi. E quell’elefante in India, a cui con un solo pugno hai spezzato un braccio?
Pirgopolinice. Come un braccio?
Artotrogo. Volevo dire una gamba.
Pirgopolinice. Eppure l’avevo colpito di malavoglia.
Artotrogo. Se avessi fatto sul serio, il tuo braccio avrebbe trapassato col braccio la pelle e le viscere e sarebbe riuscito fuori all’elefante per la bocca.
Pirgopolinice. Lasciamo perdere.
Artotrogo. Già; non vale proprio la pena che mi racconti le tue prodezze, che conosco già. (È il ventre che mi crea tutte queste seccature: devo allungare le orecchie per non allungare i denti e confermare tutte le bugie che gli saltano in testa.)
Pirgopolinice. Cosa volevo dire …
Artotrogo. Lo so cosa vuoi dire; ricordo bene come è successo.
Pirgopolinice. Successo cosa?
Artotrogo. Qualunque cosa sia.
Pirgopolinice. Ce l’hai?
Artotrogo. Il catalogo, vuoi dire? Ce l’ho, e anche la penna.
Pirgopolinice. Sei molto bravo nell’adattare al mio il tuo pensiero.
Artotrogo. È mio dovere studiare le tue intenzioni e darmi da fare per subodorare qualunque cosa vuoi.
Pirgopolinice. Ricordi?
Artotrogo. Perfettamente: centocinquanta in Cilicia, cento in Scitoladronia, trenta a Sardi, sessanta macedoni, questi sono gli uomini che hai ucciso in un giorno solo.
Pirgopolinice. Quant’è il totale?
Artotrogo. Settemila.
Pirgopolinice. Sì, press’a poco. Tu sai far bene i conti.
Artotrogo. Eppure non avevo scritto niente. Ho fatto il conto a memoria.
Pirgopolinice. Hai una memoria ottima.
Artotrogo. Me la rinfrescano i banchetti.
Pirgopolinice. Se continuerai a comportarti così, non ti mancherà mai da mangiare, ti metterò sempre a parte della mia mensa.
Artotrogo. E in Cappadocia, dove ne avresti uccisi cinquecento in un colpo solo, se la spada non fosse stata smussata?
Pirgopolinice. Li ho lasciati vivere: erano poveri fantaccini.
Artotrogo. Perché dovrei ripeterti quello che tutti gli uomini sanno, che c’è un solo Pirgopolinice su questa terra, invincibile per coraggio, per bellezza, per imprese? Tutte le donne ti amano, e fanno bene, bello come sei. Come quelle che ieri mi hanno tirato per il mantello.
Pirgopolinice. E cosa ti hanno detto?
Artotrogo. Mi chiedevano: “È Achille?” “No – risposi io – è suo fratello.” E l’altra esclamò: “Quant’è bello e aristocratico! Guarda come gli sta bene quella pettinatura. Sono proprio fortunate quelle che vanno a letto con lui”.
Pirgopolinice. Questo dicevano?
Artotrogo. E tutte e due mi hanno pregato di farti passare oggi di là, come in processione.
Pirgopolinice. Essere troppo bello è una disgrazia.
(…)
Pirgopolinice è l'incarnazione della sbruffonaggine: nelle sue farneticanti vanterie il suo scudo splende al punto da oscurare il sole, la spada smania di affettare nemici, la forza di un solo pugno, sia pure sferrato di malavoglia, è in grado di abbattere un elefante e il catalogo che il parassita Artotrogo di volta in volta aggiorna a dovere annovera un numero incalcolabile di nemici uccisi.
Alle
millanterie di ambito militare, Pirgopolinice somma
la spacconeria in campo erotico-sentimentale: non c’è donna che non sospiri per
lui; assediato da stuoli di innamorate, egli non ha pace, ma si sa, ciascuno al
mondo ha la propria disgrazia, la sua è nell’essere troppo bello…
Intanto il parassita Artotrogo, il servo
opportunista che venderebbe l’anima al diavolo dietro giusto compenso, lo
asseconda, lo spalleggia, gli fa credere di essere bello e
valoroso come Achille; sta al suo gioco ma spesso è lui a condurlo: non
ricorda Pirgopolinice di quella volta che in Cappadocia ha fatto strage di
nemici? Ne avrebbe sterminati a centinaia se non gli si fosse smussata la
spada. E come dimenticare quei settemila nemici infilzati uno dopo l'altro in un solo giorno?
Cosa bisogna fare per un tozzo di pane…
Pirgopolinice e gli altri...
Se nelle smargiassate di soldato imbattibile Pirgopolinice precorre la maschera di Capitan Fracassa della Commedia dell'arte (il soldato di ventura borioso e fanfarone che alla fine è sbugiardato e le prende di santa ragione), per l'altro verso, in quella sua ridicola propensione a vantare capacità seduttive fuori dal comune, Pirgopolinice somiglia (anticipandolo) a don Giovanni, l’incallito donnaiolo che nell’omonima commedia di Molière corre dietro a tutte le gonnelle del globo perché magnanimamente ritiene che nessuna donna debba essere privata delle sue attenzioni e che sia impossibile resistergli.
Il latin lover spaccone di Stefano Benni
Per quanto storicamente si adatti/si trasformi come ogni altra cosa a questo mondo, il play boy gradasso è esemplare umano d’ogni tempo e luogo.
Il play boy descritto da Stefano Benni (Play boy da bar, in Bar Sport) è il don Giovanni dei nostri tempi, sia pure meno scaltro e decisamente più rozzo.
Squattrinato
e tutt’altro che bello, il play boy da bar -sottocategoria della più vasta
famiglia del play boy tout court- millanta un sex appeal/un fascino tale
da permettergli di conquistare le donne più belle al primo sguardo.
Ma tra il dire e il fare, tra la realtà e la sua narrazione c'è un abisso: la verità è che il play boy da bar non ha una lira in
tasca, le donne lo ignorano e l’ultima volta che è stato a ballare al Tico-Tico di Castel San Pietro, un modesto locale di provincia, è
accaduto quanto segue:
(….)
I
FATTI: Di Bella senior va a pasturare, cioè fa un giro tra i
tavoli per vedere se c'è del buono.
Renzo adocchia un tavolo buio d'angolo con due donne sole. Di Bella junior si sgancia e invita a ballare
quella di destra, che a centro pista si rivela una canuta sessantenne, con
occhiali, alta un metro e mezzo.
«Hai
visto?» fa Renzo a Formaggino, «Di Bella
s'è beccato la tardona, e adesso io mi becco la giovane». Si palesa al tavolo e chiede: «Balliamo?». «Sì» gli fa una voce flautata. Renzo l'accompagna per mano in pista e si
ritrova a ballare con una bimba di otto anni con un enorme apparecchio nei
denti. L'orchestra attacca un
tango. «Cosa fai nella vita?» fa Renzo
ballando tutto gobbo, «La quarta elementare.» «Ti piace il tango?»
«No,
vengo a ballare solo per tenere compagnia alla nonna». A questo punto Renzo viene colto da un
tremendo mal di schiena, ma continua stoicamente a ballare piegato verso il
basso. Il tango dura trentadue
minuti. …
Il
giro chiude alle due e mezzo. Renzo
torna al tavolo facendo cadere dalla fronte pere spadone di sudore, e perde
conoscenza.
VERSIONE: Vediamo
un tavolo con due donne stupende. Di Bella ne invita una: è un'americana, un
po' matura, miliardaria, molto di classe. Un
superbo esemplare. Io invito l'altra, una diciottenne, perversa, con un
sorriso da cinema. «Cosa fai
nella vita?» le chiedo.
«L'indossatrice»
mi fa. «Ti piace il tango?» «Sì» dice lei guardandomi negli occhi,
«specialmente se è l'ultimo.» Capito,
ragazzi! Io mi sento bollire il sangue,
la abbranco e lei mi stringe così forte che con le unghie mi porta via dei
quadrettoni di Galles dalla schiena.
Balliamo
avvinghiati per due ore: quando la riaccompagno al tavolo, mi sviene tra le
braccia.
(….)
Ma
io ho adocchiato una bruna che tutta la sera sta rifiutando inviti. Mi
piacciono le conquiste difficili. «Vado
a domare una tigre» dico agli amici, e parto.
La affronto e dico: «Senti, tu puoi fare la
difficile con gli altri, ma non con me.
Guardami negli occhi.» Lei protesta, ma poi
cede, mi guarda e fa: «Tu sei quello che aspettavo» (…)
Intanto
la diciottenne, però, comincia a inseguirmi urlando: «Non tradirmi, Renzo.
Resta con me o mi ammazzo.»
I FATTI: Di Bella senior va a pasturare, cioè fa un giro tra i tavoli per vedere se c'è del buono. Renzo adocchia un tavolo buio d'angolo con due donne sole. Di Bella junior si sgancia e invita a ballare quella di destra, che a centro pista si rivela una canuta sessantenne, con occhiali, alta un metro e mezzo.
«Hai visto?» fa Renzo a Formaggino, «Di Bella s'è beccato la tardona, e adesso io mi becco la giovane». Si palesa al tavolo e chiede: «Balliamo?». «Sì» gli fa una voce flautata. Renzo l'accompagna per mano in pista e si ritrova a ballare con una bimba di otto anni con un enorme apparecchio nei denti. L'orchestra attacca un tango. «Cosa fai nella vita?» fa Renzo ballando tutto gobbo, «La quarta elementare.» «Ti piace il tango?»
«No, vengo a ballare solo per tenere compagnia alla nonna». A questo punto Renzo viene colto da un tremendo mal di schiena, ma continua stoicamente a ballare piegato verso il basso. Il tango dura trentadue minuti. …
Il giro chiude alle due e mezzo. Renzo torna al tavolo facendo cadere dalla fronte pere spadone di sudore, e perde conoscenza.
«L'indossatrice» mi fa. «Ti piace il tango?» «Sì» dice lei guardandomi negli occhi, «specialmente se è l'ultimo.» Capito, ragazzi! Io mi sento bollire il sangue, la abbranco e lei mi stringe così forte che con le unghie mi porta via dei quadrettoni di Galles dalla schiena.
Balliamo avvinghiati per due ore: quando la riaccompagno al tavolo, mi sviene tra le braccia.
(….)
Ma io ho adocchiato una bruna che tutta la sera sta rifiutando inviti. Mi piacciono le conquiste difficili. «Vado a domare una tigre» dico agli amici, e parto. La affronto e dico: «Senti, tu puoi fare la difficile con gli altri, ma non con me. Guardami negli occhi.» Lei protesta, ma poi cede, mi guarda e fa: «Tu sei quello che aspettavo» (…)
Stefano Benni, Bar Sport
E così, nel racconto dell'aspirante play boy, la bambina ottenne diventa l’indossatrice perversa che in un tango caliente gli si abbarbica addosso fino a strappargli i quadratini della giacca principe di Galles e poi minaccia il suicidio quando lui la molla per la bruna-tutta-fuoco, che a sua volta non ha scampo e capitola in un nanosecondo.Quando lo sbruffone è l'ignorante danaroso...