Nel
Canto X del Paradiso, Dante incontra gli spiriti sapienti, ardenti soli
che bruciano d’amore per il Vero: con Tommaso d’Aquino, il suo maestro Alberto
Magno, Graziano, Pietro Lombardo, Salomone e altri ancora c’è Boezio, l’anima
santa che ’l mondo fallace fa manifesto a chi di lei ben ode e che da
martiro e da essilio venne a questa pace.
Storia
drammatica quella di Boezio.
Nato
a Roma intorno al 480, Torquato Severino Boezio fu filosofo e poeta, studioso di astronomia, di musica,
di matematica.
Dal 522 ricoprì la carica di magister officiorum presso la corte di Teodorico, il re di quei barbari Ostrogoti che qualche anno prima erano giunti in Italia e, sconfitto Odoacre, avevano conquistato la penisola.
Accusato
ingiustamente di tramare per l’eliminazione di Teodorico così da consentire
all’ imperatore d’Oriente Giustiniano di riprendersi l’Italia -secondo
l’ambizioso progetto di ricostituire l’unità dell’impero romano che un paio di
decenni dopo parzialmente riuscirà-, nel 523 fu incarcerato a Pavia, torturato
quindi, sia pure innocente, venne giustiziato nel 524/525.
Quale
rabbia e quanta disperazione provi un condannato a morte che sa di essere
innocente è cosa che a stento riusciamo ad immaginare.
Boezio
affrontò la morte con la forza d’animo di Socrate.
A
sorreggerlo nei momenti bui della carcerazione fu la
filosofia: una riflessione sulla vita, sul mondo, sul potere che, maturata
giorno dopo giorno, confluì nella Consolazione della filosofia, opera in
prosa e versi composta tra il 523 e l’anno della morte.
L’opera
inizia con il carme in cui Boezio tristemente riflette sulla propria
condizione.
Improvvisamente
giunge Filosofia: ha le sembianze di una vecchia signora, i suoi occhi sono ardenti
e perspicaci ben più della comune capacità degli uomini; l’incarnato è
vivace; la sua forza è inesauribile nonostante l’età avanzata; le sue
vesti sono sapientemente intessute di fili sottilissimi, fatti di materia
indistruttibile. (Libro I, Prosa I).
Scacciate le Muse della Poesia, che attorno al letto di Boezio gli ispirano versi consolatori ma offuscano la Ragione, Filosofia prende a parlare.
In
quale abisso profondo langue la mente di Boezio? Proprio lui che un
tempo usava andare per le vie celesti nel cielo aperto, ora è racchiuso nei
limiti della materia e si autocompiange, non riesce ad andare oltre se stesso e
perde di vista la Verità.
Egli
si lamenta perché la sorte/la Fortuna lo ha abbandonato e s’infiamma perché non vede premiati
i propri meriti (Libro I, Prosa V); si chiede perché nel mondo le cose procedano diversamente da
come dovrebbero, i malvagi prosperando nella ricchezza e i buoni patendo
angherie o povertà; s’interroga su Dio che, infinitamente buono, permette
che avvenga il Male.
Boezio -dice Filosofia- dimentica che la Fortuna è colei della quale niuno può star sicuro che ella non debba abbandonarla.
“Questi son sempre stati i costumi suoi, così è fatta
la natura di lei; anzi ha ella, rivolgendotisi, mantenuto più tosto la sua
costanza, che è proprio di mutarsi: cotale era ella quando t'accarezzava;
cotale quando con zimbelli e allettamenti di non vera felicità ti si girava
d'intorno, sollazzandoti. Tu hai ora molto ben compreso quai siano e come fatti
i visi di questa Dea cieca, i quali sono tanto dubbiosi a potersi conoscere.
Ella, che ancora agli altri si cuopre, a te s'è svelata tutta”.
De consolatione philosophiae, Libro II, Prosa I
Mutevole e ingannatrice, la Fortuna lusinga gli uomini con promesse di falsa felicità ma è pronta a tradirli; li accarezza sollazzandoli per poi gettarli nella sventura e privarli di ogni cosa. Poiché non è possibile contrastarla e d'altro canto essendo rischioso affidarsi completamente ad essa -sarebbe come lasciare la nave in balia del vento- all’uomo non rimane altra via che accettare la Fortuna con la saggezza della pazienza.
D’altronde, i rivolgimenti della sorte insegnano molte cose: permettono di riconoscere i veri amici da quelli che non lo sono e perciò si dileguano nelle avversità; insegnano a discernere tra ciò che è eterno e ciò che è transitorio, tra ciò che conta e ciò che non ha valore.
Non hanno valore e più
di ogni altra cosa sono esposti ai colpi della Fortuna i beni materiali: denaro, potere e
onori si conquistano con fatica ma facilmente si perdono. Eppure, molti uomini li
ricercano senza sosta, ne accumulano avidamente, ne fanno lo scopo della
propria esistenza credendo che da essi dipenda la felicità. (Libro III, Prosa II). Ma s’ingannano.
Non è forse vero che pur chi possieda in abbondanza denaro e potere si rammarica per ciò che gli manca e che desidera? (Libro III, Prosa III). Forse che lo stesso Boezio, che pure prima della condanna era ricchissimo e ricopriva incarichi prestigiosi, può affermare di essere stato pienamente felice?
Dunque, la vera felicità
è in Dio soltanto, Bene eterno, artefice e fine ultimo di tutte le cose.
Quanto alla malvagità che ovunque trova spazio nel mondo, essa non è stata creata da Dio, che è autore solo delle cose buone, ma nasce dalle scelte degli individui che (come per Agostino e in linea con la teodicea leibniziana di svariati secoli più tardi) per debolezza della volontà o per ignoranza sono incapaci di pervenire al vero Bene.
Sbaglia Boezio se crede che il malvagio resti impunito e viva felice, la sua punizione è nella sua stessa indole, la sua infelicità nell’inclinazione al male che lo rende simile a bestia.
“Ma conciosiacosachè sola la bontà possa far gli
uomini più che uomini, di necessità è che la malvagità faccia meno che uomini
tutti coloro che ella dalla umana condizione ha tolti e avvallati. Avviene
dunque che, cui tu vedi trasformato da’ vizii, non possa uomo riputarlo. Uno
che toglie per forza l’altrui ricchezze tutto caldo d’avarizia, si può dire che
sia simile a un lupo. Uno uomo feroce e inquieto, che piatisce e litiga sempre,
potrai agguagliare a un cane. Un altro, che si diletti di porre agguati, e
pigli piacere d’involare l’altrui con inganni e frode, si può adeguare alle
volpi. Chi, non possente raffrenar l’ira, rugge e fremisce per la stizza, si
creda aver animo di lione. Alcuno pauroso e fugace, il quale dotti eziandío le
cose che non sono da temere, sia a’ cervi tenuto simile. Alcuno altro
infingardo e balordo sta come se fosse tutto d’un pezzo e intormentito? Dicasi
che vive la vita degli asini. Chi, essendo leggiero e incostante, muta voglie e
pensieri a ogn’ora, non è in nulla dagli uccelli differente. Colui il quale
nelle sozze e sporche lussurie s’attuffa, piglia quei medesimi brutti piaceri
che i porci pigliano. E così avviene che chi, abbandonata la virtù, lascia
d’essere uomo, non potendo egli divenire Dio, si tramuta in bestia”.
De consolatione philosophiae, Libro IV, Prosa III
Il malvagio è dalla sua stessa malvagità condannato a non trovar pace: come un lupo affamato, l’avido brucia desiderando le ricchezze altrui; come un cane arrabbiato l’iracondo vive tormentato dalla ferocia; il lussurioso, simile al maiale che si rotola nel fango, è divorato dal vizio. Ciascuno trova giusta punizione in se stesso.
“Ma tu, tuttoché la cagione non sappia di tanta disposizione, non dubitare però, posciaché ’l Rettore, il quale tempra il mondo, è buono, che tutte le cose dirittamente fatte e governate non siano”.
De consolatione philosophiae, Libro IV, Prosa V
Il disegno di Dio è imperscrutabile, ma in ogni cosa c'è la sua presenza, ogni cosa tende ad un fine superiore. Allora, perché (pre)occuparsi dei malvagi? Il male che essi compiono, non solo non scalfisce la virtù dei buoni, ma la fa brillare come una stella...