Non è in somma amor in sé se non insania: in fin dei conti l’amore è in sé nient’altro che follia.
Così si esprime Ludovico
Ariosto nell’Orlando furioso nel definire l’amore, un sentimento
totalizzante che come una malattia divora le energie e ottunde la
Ragione impedendo il controllo di sé: folle d’amore per Angelica,
Orlando perde il contatto con la realtà, non risponde più di se stesso ed è
pronto a qualunque cosa pur di appagare il proprio furioso desiderio.
L'idea che l’amore sia di per se stesso malato, perché come fiume in piena è impetuoso, talvolta possessivo e geloso al punto da offuscare il senno e da annullare la volontà, ha attraversato molta letteratura già
prima che sull’argomento Ariosto dicesse la sua.
Tra il VII e il VI
secolo a. C, la poetessa Saffo componeva struggenti canti d’amore per alcune
fanciulle del tiaso, la scuola nella quale le ragazze venivano istruite al canto e
alla poesia: l’amore descritto da Saffo è desiderio implacabile,
passione che sconvolge la mente e i sensi al punto da generare sofferenza fisica.
Ne è esempio Ode della gelosia:
Donna, beato, uguale,
Parmi a un Dio quel mortale
Che ti siede di fronte, e, a te ristretto,
Soavemente favellar ti sente,
Sorridere ti mira amabilmente.
Com’io ti vidi, in
petto
Attonito, distretto
Sentimi il cor; com’io ti vidi, spenta
Mancò la voce nella gola; ratto
La lingua a me fiaccavasi, e di tratto
Serpeggiando una
fiamma
Sottile, i membri infiamma;
Fugge dagli occhi la veduta; ingombra
Le orecchie un zufolio; ghiaccio un sudore
Discorre, e tutta m’occupa un tremore:
Per ch’io com’erba
imbianco,
E per poco io non manco,
E fuor di vita appajo. Or ogni ardita
Opra tentar vogl’io, poi che mendica...
Frammenti, Ode della
gelosia
Alla vista della fanciulla
amata sorpresa a colloquio con un uomo, Saffo è sconvolta dalla gelosia fino a perdere le forze (fuor di vita appajo); il cuore le si stringe in petto (in petto Attonito,
distretto Sentimi il cor); la voce si fa flebile (Mancò la voce nella gola); il sangue le si ghiaccia nelle vene mentre un sudore gelido
la percorre (ghiaccio un sudor Discorre, e tutta m’occupa un
tremore); il
volto impallidisce (com’erba imbianco). La furia dell’amore è
in ogni fibra del suo essere.
G.V.Catullo
In maniera non
dissimile da Saffo, il poeta romano Catullo nel I secolo a. C. nei Carmina
rifletteva sull’irrazionalità dell’amore, ne descriveva le pene e le contraddizioni.
Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior.
Carme LXXXV
Odio e amo: l’ossimorica espressione con la quale si apre il
distico rende perfettamente la lacerazione interiore del poeta e al contempo dà conto della natura complessa dell’amore.
Catullo non comprende (nescio) come l’amore per Lesbia, la donna che egli ama come nessuna potrebbe mai essere amata (amata nobis quantum amabitur) possa convivere con l'odio per lei; non è in grado di spiegare razionalmente come il desiderio di lei possa tramutarsi nel desiderio della sua distruzione. Tuttavia accade e il prenderne atto è per lui fonte di sofferenza psichica pari per intensità alla sofferenza fisica che gli procura la vista dell'amata nel carme LI, significativamente intitolato La sindrome amorosa:
[…]
Lingua sed torpet,
tenuis sub artus
Flamma demanat,
sonitu suopte
Tintinant aures,
gemina teguntur
Lumina nocte.
[…]
Flamma demanat, sonitu suopte
Tintinant aures, gemina teguntur
Lumina nocte.
Parafrasando l’ode della gelosia di Saffo, Catullo alla vista di Clodia sente venir meno le forze:
la lingua è intorpidita, le membra sono attraversate da un fuoco sottile, le
orecchie ronzano, la vista è offuscata; i sintomi della malattia
d’amore si manifestano con una violenza che paralizza e rende inermi.
G. Cavalcanti
Un salto in avanti di
alcuni secoli e ci imbattiamo in epoca medievale nelle ballate di Guido Cavalcanti “Perch’i’ no spero di tornar giammai”; “Perché non fuoro a me gli occhi dispenti”; “O donna mia, non vedestù colui”.
O
donna mia, non vedestù colui
che ’n
su lo core mi tenea la mano
quando
ti respondea fiochetto e piano
per la
temenza de li colpi sui?
E’ fu
Amore, che, trovando noi,
meco
ristette, che venia lontano,
in
guisa d’arcier presto sorïano
acconcio
sol per uccider altrui.
E’
trasse poi de li occhi tuo’ sospiri,
i qua’
me saettò nel cor sì forte,
ch’i’
mi partì’ sbigotito fuggendo.
Allor
m’aparve di sicur la Morte,
acompagnata
di quelli martiri
che
soglion consumare altru’ piangendo.
che ’n su lo core mi tenea la mano
quando ti respondea fiochetto e piano
per la temenza de li colpi sui?
E’ fu Amore, che, trovando noi,
meco ristette, che venia lontano,
in guisa d’arcier presto sorïano
acconcio sol per uccider altrui.
E’ trasse poi de li occhi tuo’ sospiri,
i qua’ me saettò nel cor sì forte,
ch’i’ mi partì’ sbigotito fuggendo.
Allor m’aparve di sicur la Morte,
acompagnata di quelli martiri
che soglion consumare altru’ piangendo.
I componimenti di Cavalcanti certo contengono i temi
tipici dello Stilnovo – la gentilezza della donna amata, la nobiltà del cuore
di chi ama-; accanto
a questi temi, tuttavia, s'insinua la percezione che l’amore sia esperienza psicologica
particolare e complessa, un miscuglio irrazionale di gioia e dolore, di desiderio
e morte in cui l’anima sbigottita si strugge e la Ragione si smarrisce.
W. Shakespeare
L’amore malato è significativamente il titolo di un componimento di
W. Shakespeare
Simile a febbre è l’amor
mio, ansioso sempre
Di quello che più a lungo
alimenta il mio male
nutrendosi di cosa
che il morbo favorisce,
per compiacere a un
capriccioso gusto di malato:
la Ragione, che fa da
medico al mio amore,
furiosa che sue
prescrizioni sian neglette
m’ha lasciato, e
senza più speranza ormai mi avvedo
che il desiderio è
morte, che la scienza ha vietato.
Non sarò più curato,
or che ragione più non mi cura
E, in un delirio di
crescente agitazione,
miei pensieri e
parole sono quelli di un folle,
a caso vaneggianti
lontano da ogni Vero.
L’amore è descritto come
malattia che si nutre di se stessa, febbre alimentata paradossalmente proprio da
ciò che il malato s’illude possa spegnerla.
Di quello che più a lungo alimenta il mio male
nutrendosi di cosa che il morbo favorisce,
per compiacere a un capriccioso gusto di malato:
furiosa che sue prescrizioni sian neglette
m’ha lasciato, e senza più speranza ormai mi avvedo
che il desiderio è morte, che la scienza ha vietato.
Non sarò più curato, or che ragione più non mi cura
E, in un delirio di crescente agitazione,
miei pensieri e parole sono quelli di un folle,
a caso vaneggianti lontano da ogni Vero.