Alla fine di ogni anno si attende trepidanti l’anno che verrà, lo si immagina carico di felicità più di ogni altro, proprio come felice più di ogni altro era stato immaginato l’anno precedente e quello prima ancora: così Leopardi Nel Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere (Operette morali), lucida riflessione sulla struggente vanità della speranza.
L’irriducibile pessimismo leopardiano circa la speranza, nient’altro
che cieco inganno, è presente nei secoli sin dall’antichità.
Per
i Greci l’uomo ha il destino segnato, dunque nessuna speranza (Elpìs) di sottrarsi al Fato (Týche) e alla necessità (Anánke): osare ribellarsi al proprio destino significa macchiarsi del peccato di Hýbris
(tracotanza) come fece Prometeo, che sfidò gli
dei e pose nel cuore degli uomini cieche speranze (Eschilo, Prometeo incatenato).
Anche per i Romani, la speranza (spes) è vana illusione e spesso, come
per gli stoici, essa è d’ostacolo all’esercizio della virtù. Ne dà contro Seneca.
«Quam
stultum est aetatem disponere ne crastini quidem dominum! o quanta dementia est
spes longas inchoantium!»:
Che sciocchezza fare progetti per l’intera vita quando non si è padroni
neppure del domani! Oh, quanto sono pazzi coloro che nutrono speranze a lungo
termine (Epist. 101,4).
A differenza dell'italiano speranza, il latino spes oscilla
tra due diversi significati: può indicare sia l’attesa
-preoccupata- di eventi negativi (in questo caso sperare ha lo stesso
significato di temere) che l’aspettativa -trepidante- di un futuro bene.
Seneca non ha dubbi: la vita scorre con la velocità
di un fiume impetuoso, sprecarne anche un solo attimo pre-occupandosi di ciò
che sarà (nel bene o nel male) è da stolti. Inutilmente gli uomini si agitano per quello che potrebbe
accadere domani, dimenticando che la morte potrebbe coglierli nel sonno
prima che arrivi il nuovo giorno, come mostra l’esempio di Cornelio Senecione,
le cui speranze -di successo e denaro- naufragano con la morte improvvisa. (Epistulae ad Lucilium,
101,1)
«Quam stultum est aetatem disponere ne crastini quidem dominum! o quanta dementia est spes longas inchoantium!»:
Che sciocchezza fare progetti per l’intera vita quando non si è padroni neppure del domani! Oh, quanto sono pazzi coloro che nutrono speranze a lungo termine (Epist. 101,4).
Come ogni altra passione, anche l’attesa/la speranza è d’impedimento alla felicità (maximum vivendi impedimentum est exspectatio, in De brevitate vitae, 9,1): tormentato dal desiderio o dal timore di ciò che potrebbe essere, l’uomo è in uno stato di costante dolorosa tensione e non ha pace, a vecchie aspettative/preoccupazioni ne aggiunge continuamente di nuove (spes spem excitat, ambitionem ambitio, De brevitate vitae. 17,5) in una spirale inarrestabile.
Il saggio, al contrario, è felice, egli non ha altro padrone che se stesso: libero dalle passioni come dalla tirannia del tempo, il saggio non teme, non desidera, non ha bisogno del passato, non dipende dal futuro, ma si concentra sul presente, agendo affinché tutto il bene possibile -saggezza, onestà, tolleranza, amicizia - si realizzi hic et nunc.
E così, se da una parte Seneca esorta Lucilio a rinunciare alla futile e oziosa speranza di chi affida la propria vita alla Fortuna, dall’altra lo invita a coltivare la speranza operosa (bona spes) che si concentra sul presente e s’impegna a renderlo perfetto (Epistulae ad Lucilium, 101,1).
Insomma,
c’è una speranza cattiva e c’è una speranza buona, c’è quella di chi attende -passivamente- che le cose succedano, dall’altra parte c’è la speranza
di chi nella vita s’adopera perché esse accadano; tra i due c’è il disperato
(colui che non ha alcuna speranza), il quale si rassegna alle cose come sono.
Si tratta di tre diversi modi di essere al mondo, che nella sua Autobiografia Norberto Bobbio esemplifica ricorrendo a tre immagini: la bottiglia nella quale la mosca vola a casaccio, la rete in cui si dibatte il pesce, il labirinto all’interno del quale l’uomo si aggira cercando l’uscita (G. Zagrebelsky, Il dubbio e il dialogo).
La mosca nella bottiglia può solo sperare nel caso: si agita
freneticamente e spera che nel suo dibattersi a casaccio le succeda di compiere
il movimento che le consentirà di uscire dalla sua prigione; è la speranza
inutile del giocatore d’azzardo, che nel lanciare i dadi si augura che la fortuna
lo assista o quella dello studente che fa gli scongiuri prima del compito per
il quale sa di non essere preparato o ancora quella del fumatore incallito che
spera di evitare la bronchite…
Il pesce non ha alcuna prospettiva di salvezza, subisce passivamente ed è
appunto disperato; paralizzato nell’inazione, non ha altra scelta che subire il
proprio destino.
L’uomo nel labirinto, invece, non rinuncia alla speranza di trovare
l’uscita, ma dovrà cercarla con tutto l’impegno di cui è capace, dovrà valutare,
misurare ogni proprio passo per non rischiare di girare a vuoto: la sua salvezza dunque dipende da come agisce.
La speranza ragionevole
La speranza buona non può che essere anche speranza ragionevole.
Nella parte finale della Critica della ragione pura, Kant afferma che la filosofia tenta di fornire risposta a tre domande fondamentali: Che cosa posso sapere? Cosa devo fare? Cosa posso sperare?
Delle
tre, l’ultima domanda è la più radicalmente umana: solo all’uomo -che è essere finito-
attiene la speranza, mentre dio -che è essere perfetto – evidentemente non ha
motivo di sperare, come pure non spera l’animale, che è essere finito ma -a
differenza dell’uomo- non è consapevole di sé e ignora la propria finitezza.
Proprio perché consapevole della propria
finitezza, l’uomo sa che non può sperare l’impossibile, per quanto nulla gli
vieti di sognarlo/vagheggiarlo.
Perché la speranza abbia buone
possibilità di trovare concreta attuazione, essa deve essere ragionevolmente
fondata, deve -per dirla con M. Bloch in Principio speranza- fondarsi
sull’osservazione del presente sapendo cogliere in esso le potenzialità che
vanno liberate dalla prigione dell’esistente.
Insomma, non va lontano ed è anzi
pericolosa la speranza irrazionale che, cedendo a facili entusiasmi e inseguendo
donchisciottesche chimere, perda di vista la realtà.
Don
Chisciotte è grande perché si ostina a credere, contro l’evidenza, che la
bacinella da barbiere sia l’elmo di Mambrino e che la rozza Aldonza sia
l’incantevole Dulcinea. Ma don Chisciotte da solo sarebbe penoso e pericoloso,
come lo è l’utopia quando violenta la realtà, credendo che la meta lontana sia
già raggiunta, scambiando il sogno per la realtà…Don Chisciotte ha bisogno di
Sancio Panza, il quale vede che l’elmo di Mambrino è una bacinella e sente
l’odore di stalla di Aldonza…
Il
disincanto è una forma ironica, malinconica e agguerrita della speranza; ne
modera il pathos profetico e generosamente ottimista che facilmente sottovaluta
le paurose possibilità di regressione, di discontinuità, di tragica barbarie
latenti nella storia…
Claudio Magris, Utopia e
disincanto, ediz. digitale Garzanti 2014
L’hidalgo di Cervantes incarna la
speranza ciecamente ottimista che si ostina a vedere possibilità di successo
anche dove non ve ne sono; il risultato è che il povero
cavaliere errante colleziona sconfitte e percosse e, se non fosse per il disincanto
pragmatico di Sancio Panza, che lo riacciuffa nei suoi voli pindarici per
riportarlo sulla terra, don Chisciotte ci lascerebbe la pelle.
Uscendo dalle metafore
letterarie, basti considerare quante speranze la Storia ha visto fallire
perché prive di progettualità o semplicemente perché espresse nelle forme e con gli strumenti sbagliati; quante jacqueries (genericamente: rivolte popolari) nella Storia sono fallite perché, pur ispirate da giusta causa e
animate da giuste speranze (la libertà dall’oppressione del
potere di pochi, l’emancipazione dalla povertà) erano
mal organizzate, estemporanee o inutilmente violente.
D’altro canto, con altrettanta
evidenza la Storia racconta il successo straordinario di speranze perseguite da parte di movimenti, gruppi, partiti o intellettuali che non soltanto hanno agito/lottato con determinazione e paziente tenacia ma lo hanno fatto contando su idee,
programmi e progetti chiari.
Il disincanto è una forma ironica, malinconica e agguerrita della speranza; ne modera il pathos profetico e generosamente ottimista che facilmente sottovaluta le paurose possibilità di regressione, di discontinuità, di tragica barbarie latenti nella storia…