Convinti che i fatti dovessero prevalere sulle parole, specie quando queste fossero roboanti nella forma ma vuote di contenuti, assertori di una cultura che si sporcasse le mani intervenendo concretamente sul reale per modificarlo, gli illuministi italiani -specie il gruppo lombardo riunito intorno al Caffè- si occuparono di carceri, di tortura e pena di morte, di povertà e degrado, di ignoranza che genera emarginazione.
L’Illuminismo napoletano batté lo stesso sentiero, sia pure in un
contesto – il regno borbonico- che, immobile nelle strutture socio-economiche,
refrattario ad ogni istanza/proposta di rinnovamento, era di gran lunga più
problematico rispetto a quello milanese.
Alcuni illuministi napoletani pagarono con la vita l’impegno per una società più giusta: Pietro Giannone morì in carcere, Francesco Mario Pagano finì sul patibolo.
Antonio Genovesi (1713-1769)
Nato nei pressi di Salerno nel 1713 morto a Napoli nel 1769, Genovesi fu scrittore, filosofo, economista.
Ordinato
diacono nel 1736, fu inviso alle gerarchie ecclesiastiche che non ne gradirono
le posizioni poco ortodosse.
Tra
le sue opere, le Lettere accademiche sorprendono per la modernità e il
coraggio delle idee.
Quando
le Legge pensa a punire i delitti, ma a prevenirli col soccorrere alla natura,
non fa che alimentarli.
Quella
povertà, quella mal cavezza di necessità, quei bisogni insiti, quelle false
superstizioni, ispirano la frode, il furto, la rapina, la rissa, il tradimento,
la venalità d’ogni cosa e dell’onore medesimo, la falsità, i veleni, gli odi,
le invidie, tante maniere d’omicidi, di parricidi…chi li potrebbe ridire? È la
povertà, è la miseria, è il bisogno, è l’ignoranza, che o fa degli uomini
crudeli e sanguinari o spianta le famiglie, spopola le Nazioni, impoverisce a
poco a poco piccoli e grandi, e ‘l sovrano in fine.
Volete
sapere questa povertà donde nasce? Perché non è poi di suolo, di clima, di
causa accidentale, che sarebbe la vera, ma di costituzione politica. Non
occorre che vi andiate lambiccando il cervello col dirmi: “è la
poltroneria, è il lusso, è il mal costume, è il non esserci più fede né privata
né pubblica”. Ciance. Tutti questi mali non sono che effetti della povertà. La
povertà fa i poltroni: ella genera il mal costume, ella annulla
la fede pubblica, ella (qual paradosso!) genera il lusso, dal
quale viene poi vicendevolmente alimentata. [...] Volete sapere, Canonico, chi sono coloro che più d’ogni
altro si studiano di far peggiorare gli uomini e inondare la frode, la
crudeltà, la scelleraggine? Quegli, appunto, che gridano “alla fiera”
e mostrano in parole gran rispetto alla virtù ma non dicono mai però alle
ricchezze “fin qui, basta”: quegli uomini da boschi e da riviera, che
pretendono d’essere uomini d’anima. Quest’avidità, oceano senza lidi, non si
può satollare che a spese di migliaia e migliaia di persone, cui è forza
restare a secco per l’altrui ingordigia. Quanto più si chiappa del comune
patrimonio, più crescono gli indigenti. Ma un necessitoso serberà la pazienza
un giorno, due, tre…
A. Genovesi, Lettere accademiche
Quella povertà, quella mal cavezza di necessità, quei bisogni insiti, quelle false superstizioni, ispirano la frode, il furto, la rapina, la rissa, il tradimento, la venalità d’ogni cosa e dell’onore medesimo, la falsità, i veleni, gli odi, le invidie, tante maniere d’omicidi, di parricidi…chi li potrebbe ridire? È la povertà, è la miseria, è il bisogno, è l’ignoranza, che o fa degli uomini crudeli e sanguinari o spianta le famiglie, spopola le Nazioni, impoverisce a poco a poco piccoli e grandi, e ‘l sovrano in fine.
Volete sapere questa povertà donde nasce? Perché non è poi di suolo, di clima, di causa accidentale, che sarebbe la vera, ma di costituzione politica. Non occorre che vi andiate lambiccando il cervello col dirmi: “è la poltroneria, è il lusso, è il mal costume, è il non esserci più fede né privata né pubblica”. Ciance. Tutti questi mali non sono che effetti della povertà. La povertà fa i poltroni: ella genera il mal costume, ella annulla la fede pubblica, ella (qual paradosso!) genera il lusso, dal quale viene poi vicendevolmente alimentata. [...] Volete sapere, Canonico, chi sono coloro che più d’ogni altro si studiano di far peggiorare gli uomini e inondare la frode, la crudeltà, la scelleraggine? Quegli, appunto, che gridano “alla fiera” e mostrano in parole gran rispetto alla virtù ma non dicono mai però alle ricchezze “fin qui, basta”: quegli uomini da boschi e da riviera, che pretendono d’essere uomini d’anima. Quest’avidità, oceano senza lidi, non si può satollare che a spese di migliaia e migliaia di persone, cui è forza restare a secco per l’altrui ingordigia. Quanto più si chiappa del comune patrimonio, più crescono gli indigenti. Ma un necessitoso serberà la pazienza un giorno, due, tre…