Così parlò Zarathustra (1884) è l’opera in cui F. Nietzsche profetizza l’avvento di un uomo nuovo, un’umanità che, finalmente libera dalle catene della tradizione, sia gioiosamente in grado di creare del nuovo.
L’opera si apre con un Prologo in cui è descritta la
discesa di Zarathustra tra gli uomini.
Mentre discende la montagna sulla quale
ha sempre vissuto, Zarathustra incontra il Santo che vive nell’ isolamento
della foresta e dialoga unicamente con Dio.
-Cosa
fa il Santo nella foresta? Chiede Zarathustra
il
Santo risponde
-faccio canzoni, le canto, rido, piango,
mugolo e lodo Iddio…Ma tu che ci porti in dono?
…
-Che
mai posso avere da darvi, lasciatemi andare presto ..
E
così, il vegliardo e l’uomo si separarono, ridendo come ridono i fanciulli.
Ma
quando fu solo, così parlò Zarathustra al suo cuore: è
mai possibile? Questo santo vegliardo non ha ancora sentito dire nella sua
foresta che Dio è morto!
F.
Nietzsche, Così parlò Zarathustra
il Santo risponde
-faccio canzoni, le canto, rido, piango, mugolo e lodo Iddio…Ma tu che ci porti in dono? …
-Che mai posso avere da darvi, lasciatemi andare presto ..
E così, il vegliardo e l’uomo si separarono, ridendo come ridono i fanciulli.
Ma quando fu solo, così parlò Zarathustra al suo cuore: è mai possibile? Questo santo vegliardo non ha ancora sentito dire nella sua foresta che Dio è morto!
Dio è morto.
Nella prospettiva di Nietzsche, Dio non è solo quello della tradizione metafisico-religiosa, ma tutto ciò che all’uomo impedisce di affermarsi nella propria individualità: Dio è qualunque cosa opprima -la legge, la morale, i tanti tu-devi- negando agli uomini la libertà di esprimersi nei propri bisogni umani, troppo umani.
Proseguendo
nel cammino, Zarathustra giunge nella città di Vacca pezzata, dove una gran
folla è riunita in attesa che si esibisca un funambolo.
A
questa folla Zarathustra descrive la figura non solo dell’oltreuomo ma
anche dell’ultimo uomo, le due differenti possibilità esistenziali che
si aprono dopo la morte di Dio/di tutti gli dei.
Se
l’oltreuomo, come si diceva poco fa, è colui che ormai libero dalle pastoie dei valori tradizionali, ritrova la capacità-volontà di
creare e costruire, al contrario l’ultimo uomo è quello del nichilismo
passivo, l’uomo/l’umanità allo sbando che, preso atto della crisi dei valori,
vive la disperazione di chi è privo di punti di riferimento ed è paralizzato
nell’inazione.
L’ultimo
uomo nella letteratura del Novecento
Il
debito contratto da certa letteratura del Novecento nei confronti di Nietzsche e
della sua filosofia è enorme, e non soltanto per quel superuomo tutto
italiano, tutto decadente e molto dannunziano che è la brutta copia dell’oltreuomo…
Riflettendo
sul personaggio dell’inetto, protagonista di tanta narrativa europea
nella prima metà del secolo, non si può non notare quanto somigli al nietzscheano
ultimo uomo.
Come
l’ultimo uomo, l’inetto assiste sgomento alla fine di un mondo e
al crollo di certezze secolari: la compattezza
dell’identità si sbriciola per effetto della psicanalisi, così che l’uomo si
scopre diverso da ciò che credeva di essere come accade a Vitangelo Moscarda,
protagonista del romanzo pirandelliano Uno, nessuno e centomila; la
società si rivela una gabbia che imprigiona in ruoli e maschere di cui tuttavia
l’uomo fatica a liberarsi non trovando vera alternativa, come succede a Mattia
Pascal nell’omonimo romanzo dello stesso Pirandello; la morale comune si rivela fondata
sull’ipocrisia; la Storia e i suoi rivolgimenti mandano in frantumi l’ottimistica
idea che il progresso sia processo lineare e inarrestabile e la vita si svela
in tutto il suo labirintico Caos privo di leggi e ordine (come in Svevo o in
Kafka); persino l’idea di tempo, così come è sempre stata concepita è
sovvertita dall’intuizione di H. Bergson e dall’opera di M. Proust.
Intimisticamente ripiegato su stesso, inattivo perché privo di certezze che lo guidino verso una scelta, l’inetto-ultimo
uomo incarna tutte le fragilità dell'uomo moderno.
L’esperienza
della Seconda guerra mondiale con i suoi 50 milioni di morti, l’orrore delle persecuzioni e dei campi di
sterminio risvegliano le coscienze dal torpore segnando lo spartiacque tra la
letteratura del primo Novecento e quella successiva: al nichilismo passivo dell’inetto-ultimo
uomo, trasposizione letteraria dell‘uomo moderno, fa seguito l’ottimismo della volontà di una generazione -di uomini e intellettuali- che non intende soccombere nell'inerzia, che di fatto implica l'accettazione dello status quo, e scorge nell'azione l'unico strumento che possa modificare il reale.
Insomma, paradossalmente proprio la più folle e la più insensata delle guerre funge come catalizzatore di energie, aprendo a nuove possibilità esistenziali e a nuovi valori che la letteratura intercetta e racconta.
È la cifra delle opere del Neorealismo italiano (ma in generale di buona parte della letteratura europea nel secondo dopoguerra).
Si
pensi al romanzo di Elio Vittorini Uomini e no.
L’opera è il racconto della Resistenza e della lotta all’orrore del Nazifascismo, tuttavia il discrimine tra gli uomini e i non-uomini non è tanto nell’appartenenza ad una fazione (i partigiani) o all’altra (i fascisti); gli uomini e i non uomini non sono due categorie/gruppi, non due umanità diverse e contrapposte, ma rappresentano, come lo stesso Vittorini ebbe a chiarire (1), due possibilità esistenziali, due modi di intendere e vivere la vita: si può assistere o agire; subire ingiustizie e oppressione, in questo modo perpetuandole, o lottare per combatterle. Essere uomini significa dunque scegliere e la scelta, dopo una guerra come quella che si è appena conclusa, non può che essere per l'impegno a difesa della libertà, della solidarietà e dell’empatia con l'altro.
È il senso del romanzo di A. Camus La peste, in cui il protagonista s’impegna, rischiando la propria vita, nella cura degli ammalati, perché non si può rimanere inerti e indifferenti di fronte alla sofferenza altrui-; ed è il fil rouge dell’opera di Calvino La giornata di uno scrutatore, storia di un giovane che nella solidarietà tra gli uomini, nell’amore, nell’impegno a favore dell’altro, specie se l’altro è tra gli ultimi che vivono ai margini, riconosce lo scopo e il senso dell’esistenza umana.
Com'è evidente, i personaggi che animano la narrativa del secondo dopoguerra non hanno più nulla della rinunciataria rassegnazione e della passività talvolta un po’ acquiescente dell’inetto-ultimo uomo, l’antieroe che frastornato assiste alla morte di tutti gli dei, vede evaporare idee ed ideali ma non ha nulla con cui sostituirli (ma nemmeno ci prova): al contrario, coerentemente con la sensibilità del tempo, le storie di Enne 2 -il protagonista di Uomini e no di Vittorini-, del partigiano Jonny di Fenoglio o di Amerigo nel romanzo breve La giornata di uno scrutatore di Calvino, raccontano l’impegno in nome di una causa, l'adesione ad un ideale.
Non si tratta di eroi, ma di personaggi/uomini con una chiara idea dello stare al mondo…
1) Quando il romanzo fu pubblicato in Francia con il titolo Les hommes et les autres (Gli uomini e gli altri) Vittorini contestò la traduzione e così spiegò il suo intento : «il titolo Uomini e no significa...che noi, gli uomini, possiamo anche essere “non uomini”»
Raffaele Crovi, Il lungo viaggio di Vittorini, 1998