Achille
Campanile (1899-1977) fu drammaturgo,
giornalista, sceneggiatore, ma soprattutto autore prolifico di una produzione
letteraria vastissima e variegata: siamo sull’ordine di diverse migliaia di
opere considerando le oltre 2500 commedie, alcune delle quali ridotte ad un
unico brevissimo atto e a pochissime battute (praticamente lo spettacolo finiva
appena iniziato!)e l’immane mole di
racconti.
Apprezzato
dal pubblico, Campanile non fu sempre amato dalla critica che solo di recente
lo ha iscritto tra i Grandi del Novecento; quantomeno non godette del favore
di certi critici, quelli che solitamente dall’alto del loro intellettualistico
snobismo inorridiscono per la leggerezza di temi che a
loro dire non hanno sufficiente dignità filosofica e
gridano allo scandalo quando la Lingua, privata di ogni sacralità e sottratta
ai lacci della Logica, diventi gioco, una sorta di dire afasico
apparentemente senza
senso.
E
Campanile amava giocare con la Lingua.
Si
prenda La quercia del tasso, il racconto in cui v’è una quercia che a
Roma è detta quercia del Tasso perché al tempo che fu il poeta Torquato
Tasso amava sedervisi sotto.
Poco distante dalla quercia del Tasso c’è
un olmo detto olmo del Tasso perché alla sua ombra amava riposare Bernardo,
padre di Torquato.
Nella quercia del Tasso ha la sua tana un piccolo
tasso, che dunque è detto il tasso della quercia del Tasso per
distinguerlo dal tasso dell’olmo del Tasso.
C’è poi una vecchia guercia
che per anni ha accudito il Tasso; giustamente la guercia è a tutti nota
come la guercia del Tasso, non il Tasso dell’olmo del Tasso, ma il
Tasso della quercia del Tasso; per dirla più chiaramente è la guercia del Tasso della quercia del Tasso...
Puro
divertissement? Non proprio.
L’assonanza,
la consonanza, l’alliterazione, la polisemia, l’intenzionale deformazione e/o
sostituzione di un vocabolo con un altro sono in Campanile gli elementi di un gioco
linguistico che umoristicamente smitizza la Parola
e la svela per ciò che è: segno-forma convenzionale incapace di contenere la complessità del reale.
La
cifra dell’intera opera di Campanile è proprio l’umorismo.
Nel
suo saggio del 1908, Pirandello aveva definito l’umorismo ricorrendo
all’esempio arcinoto della vecchia signora che, imbellettata come una
teen-ager, è certo comica quando ci si limiti a considerarla solo per come
appare; se poi si rifletta -e ci si interroghi- sui motivi che la spingono a
conciarsi a quel modo, emerge un’altra realtà per nulla comica e si
comprende che forse la signora s’imbelletta come una ragazzina perché teme di
perdere l’amore del proprio uomo.
Scardinando certezze, scavando sotto la
superficie di ogni cosa, l’umorismo – o sentimento del contrario-
è il sorriso amaro che si potrebbe definire del disincanto, poiché nasce dalla consapevolezza che la realtà è diversa da come appare e certamente più complessa. Umoristicamente,
dunquecon lo sguardo lungo di chi vede oltre ciò che sembra, ma con il sorriso divertito e bonario di chi non giudica, Campanile
racconta la vita e gli uomini, ne svela le ambiguità, le paure, le manie.
Prendiamo
Povero Piero, romanzo scritto nel 1959 e qualche anno più tardi
gustosissima commedia che in 3 atti mette in scena l'ipocrisia di certi costumi/usanze.
Il
povero Piero è passato a miglior vita.
Morire
è cosa naturalissima e inevitabile, per questo stupisce lo stupore che
si è soliti manifestare nell’apprendere la ferale notizia della morte di Tizio
o di Caio: “morto?”; “in che senso morto?”; “è impossibile che sia morto”; come
se fosse normale essere eterni e la morte fosse accidente che capita solo ad
alcuni.
Allo
stupore subentra inevitabilmente la commozione: il superstite, quand'anche anonimo conoscente, si sente
in dovere di esprimere tutto il dolore per quella perdita inaspettata versando
fiumi di lacrime e pronunciando frasi di encomio per chi non c’è più, persona
integerrima e sotto ogni profilo esemplare; intanto segretamente il vivo gioisce
per essere quello che dei due -magari meno esemplare ma più fortunato- è rimasto su questa
terra. A
dirla tutta, il povero Piero non è proprio morto: il suo è un caso di morte
apparente, una di quelle stranezze della Natura per cui un individuo giace
stecchito ma le sue funzioni vitali non sono irreversibilmente compromesse.
In
casa regna la giusta costernazione, tanto più che nelle sue ultime volontà Piero
ha chiesto che al momento della dipartita si tenga segreta la notizia e la si
renda pubblica solo ad esequie avvenute perché un funerale (…) è una rassegna di forze vive, un mezzo per
avvicinare persone che c'interessano, per mettersi in vista. (…) I
funerali appartengono ai vivi, il morto non ne ha bisogno (ATTO III).
Occorre
dunque provvedere alle esequie e fare tutto ciò che serve alla chetichella, perché così vuole Piero.
Suonano
alla porta: è l’operaio incaricato di riparare un filo della corrente elettrica
ad alta tensione e per farlo deve potervi accedere dalla finestra della camera
da letto, la stessa camera da letto dove riposa il caro estinto.
Teresa,
la moglie di Piero, è perentoria: in camera da letto c’è disordine, si
vergognerebbe a farci entrare qualcuno. La
cameriera, donna forzuta che la vita ha abituato alla fatica, caricatosi il disordine
sulle spalle, lo trasferisce in bagno.
Inaspettata,
giunge la visita di Demagistri, amico fraterno di Piero: è venuto a chiedergli
di essere suo testimone di nozze, ma è improvvisamente colto da gastroenterite
acuta e ha bisogno del bagno che, si sa, è molto in disordine. Interviene
prontamente la cameriera che nella stessa modalità di cui sopra e
soddisfattissima della propria efficienza, trasferisce il disordine dal
bagno alla camera da letto.
Caso
vuole che dal cavo in riparazione una scarica elettrica colpisca il letto sul
quale riposa il povero Piero: affranto per averne involontariamente
causato la morte -così crede- l’operaio riferisce l’accaduto a Teresa, si scusa, chiede perdono ma non è colpa sua, gli era parso che in
camera non ci fosse anima viva quando c’era entrato.
Tra
colpi di scena, equivoci e fraintendimenti la storia giunge al suo epilogo: Piero, uscito dalla catatonia della morte apparente, è vivo e vegeto.
Tutti
sono felici. Tutti
escluso l’operaio, reso vedovo dall’improvvisa -e vera- morte della moglie adorata.
Quanto
al redivivo Piero è certo felicissimo di averla scampata, ma deve constatare
non solo che le sue volontà non sono state rispettate, tant’è che alla notizia
della sua morte la casa si è riempita di parenti, di amici e di
lacrime di circostanza, ma deve anche realizzare che è rimasto letteralmente in mutande,
poiché abiti, scarpe, effetti personali, insomma tutto quello che gli era
appartenuto in vita è stato distribuito con sorprendente solerzia -quasi come non si vedesse l'ora di disfarsene- tra
amici e conoscenti... Povero
Piero.
E
poveri tutti noi: terrorizzati dalla nostra stessa fragilità/finitezza, spaventati dalla
complessità della nostra anima -caotico guazzabuglio di bene e di male-, fabbrichiamo storielle (sistemi di valori, consuetudini, convenzioni) che ci facciano sentire al riparo dal caos. Vogliamo credere che tutto sia chiaro e semplice quando il confine tra verità e menzogna, tra riso e pianto, tra vita e morte è labile al punto tale che ogni cosa si mescola continuamente all'altra un insensato minestrone di
opposti.
La
commedia si chiude con una scena degna del teatro pirandelliano: la pupazzata
del funerale che, predisposto per Piero quando la notizia della sua dipartita è diventata ormai di dominio pubblico, è ora per la moglie
dell’operaio che è morta davvero. In fondo, un morto vale l'altro e se la bara pensata per l'uno s'adatta anche all'altro, perché no...
Il corteo funebre sfila in silenzio, le facce
sono contrite come occorre che siano, ognuno versa giuste lacrime di commozione. E
tuttavia in quella contrizione e tra quelle lacrime serpeggia l’intimo e
umanissimo compiacimento di essere vivi.
Anche
stavolta la morte è toccata a qualcun altro.
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