Letteratura

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Riflettendo con Buzzati. “Dàgli! Dàgli al vecchio”

 

Posto che gioventù e vecchiaia sono concetti relativi, tant’è che un cinquantenne è un giovane virgulto per il novantenne mentre un trentenne è una “cariatide” per il teen-ager, si può tuttavia convenire che oggettivamente la vecchiaia si caratterizza per progressiva perdita di vigore, per un declino psico-fisico che se in casi fortunati è processo lento e indolore -è possibile invecchiare bene quando si è ben vissuto, occorre riconoscerlo- in altri è, ahimè, cosa piuttosto gravosa.
Indipendentemente dalla qualità della vecchiaia, anche quando essa non si trascini penosamente tra acciacchi o dolori invalidanti e si limiti a qualche naturalissimo disturbo, a lieve obnubilamento della memoria, a lentezza di riflessi, a certa rigidità articolare o a cedimenti di altro genere sui quali non è il caso di dilungarsi, essere non più giovani/pimpanti è cosa piuttosto seccante, sarebbe ipocrita negarlo.
 
Senectus ipsa est morbus (la vecchiaia è essa stessa una malattia, Terenzio in Phormio)essa rende insieme orribili e malvagi, consuma la mente fra cupi pensieri perenni, fa smarrire la gioia del sole e della luce, rende odiosi ai ragazzi e indifferenti alle donne. Così un Dio fece orrenda la vecchiaia (Mimnermo di Colofone, Frammenti). Al contrario la gioventù, che si fugge tuttavia (Lorenzo de’ Medici, Canzona di Bacco) è (…) età fiorita (…), giorno d’allegrezza pieno (…) che precorre alla festa di tua vita (Leopardi, Il sabato del villaggio): insomma, la vecchiaia è condizione tutt’altro che facile, certa letteratura ne è convinta.
 
Che si tema la vecchiaia e che, potendo scegliere, la si eviterebbe volentieri è dunque comprensibile; non è invece accettabile una società/una cultura che odi, emargini, raggiri, maltratti, ignori o abbandoni i vecchi, esseri umani un tempo vigorosi e produttivi ma oggi portatori loro malgrado di una condizione di fragilità che li taglia fuori dai giochi e li rende vulnerabili.
 
Tra i tanti composti da Buzzati, v’è il racconto distopico significativamente intitolato Cacciatori di vecchi, uscito nel 1961 sulle pagine del Corriere della sera e più tardi pubblicato in Il colombre e altri cinquanta racconti.
 
Sono le due di notte e Roberto Saggini, quarantaseienne amministratore di una piccola azienda, posteggia la propria auto nei pressi di una tabaccheria ancora aperta nella squallida periferia di una grande città. Giusto il tempo di pagare e Saggini è circondato da una gang di giovanissimi teppisti che lo picchiano, e poi, come i cani da caccia inseguono la preda, al grido di dagli al vecchio lo braccano fin sulla porta di casa.


Il sibilo lacerante, lungo, a singhiozzi, fanfara di guerra per le giovani canaglie: nelle ore più strane della notte esso scuoteva dal sonno interi rioni e la gente con un brivido si rintanava ancor di più nel letto, raccomandando a Dio lo sciagurato di cui si stava iniziando il linciaggio”. “Dàgli! Dàgli al vecchio”.
 
Dolorosamente, tra quei teppisti Roberto riconosce suo figlio, il ragazzo che dopo anni, forse decenni ma della veloce durata di un attimo, si sorprenderà della propria immagine riflessa allo specchio: il volto segnato dalle rughe, l’espressione stanca del vecchio.
È la ruota della vita: sei giovane e pieno di entusiasmo, hai energie sufficienti a spaccare il mondo e un attimo dopo le spalle ti s’incurvano, il passo si fa incerto, i capelli incanutiscono.


Sì, sono noiosi i vecchi, hanno la deprimente abitudine di ripetere le cose dette un'ora fa, sempre le stesse. Le schiene ricurve, le labbra raggrinzite che si infossano per la mancanza dei denti. E quel continuo addormentarsi sulle poltrone, quei respiri sibilanti, quelle tossi cavernose? Con la difficoltà, in tanti che siamo, di starci tutti in questo ristrettissimo mondo, ci volevano anche loro!
Poi c'è la cosa principale: a che servono, così inadatti alle esigenze della vita moderna? Chi vangava non ha più forza di vangare, chi correva in bicicletta siede inerte sulla soglia, chi scriveva poemi la penna gli si è arrugginita, chi cantava gli si è spenta la voce. Non servono più che a mangiare, a dormire, a portar via il posto agli altri che vengono e che ne avrebbero un grandissimo bisogno. Vero che i vecchi sono pressappoco tutti così? Ecco un uomo che ha messo su famiglia, lui, lei e due figli in tre camerette più servizi. Ci starebbero appena appena, ma c'è anche il vecchio padre, pensionato, coi reumi, assolutamente nullo. Allora si arrangia una brandina in corridoio e intanto capita di pensare: se almeno potesse trovarsi una sistemazione altrove, un posticino tranquillo (altrove, eh eh, ci siamo intesi al volo); in questo caso di notte rincasando non ci sarebbe più il pericolo di sbattere gli stinchi negli spigoli della sua branda. Si potrebbe accendere la luce, parlare, camminare, respirare finalmente. Ma no, loro si ostinano, non vogliono lasciare i figli, sempre là nello stesso angolo a leggere, dormicchiare, un fastidio solo a vederli.
I bambini sono belli a vedersi, il loro giudizio non dà preoccupazioni, la loro pelle è morbida e liscia. I bambini servono e i vecchi no…
Eppure raccontano che nell'antica Cina la vecchiaia fosse il paradiso della vita, tanta era la venerazione per coloro che, avendo percorso l'intera tappa, si avvicinavano al grande esame. Dico a voi, giovani presuntuosi che vi illudete di essere i soli a capire i problemi del mondo e che i vostri padri siano una massa di cretini. Un giorno, pensateci, essi erano esattamente come voi, avevano i vostri stessi muscoli, se non di più, il vostro passo atletico, le vostre speranze, avevano anche loro i riccioli biondi. Ora sono diventati curvi, fragili, calvi, ma la differenza è ben poca, cari miei, trenta o cinquant'anni soltanto, un respiro, un niente!  Non dimenticatelo, quando vi passa vicino il nonno col bastoncello. Guardatelo con attenzione piuttosto; egli è il vostro ritratto. Domani, dopodomani, prima che abbiate fatto in tempo a prendere le misure, voi uscirete a piccoli passettini come lui...  

Scrive così Dino Buzzati in Cronache terrestri (raccolta di articoli scritti per il Corriere e pubblicata nel 1970), denuncia potente dell’imbecillità criminale che relega il vecchio in un angolo o se ne disfa piazzandolo in uno di quei posticini tranquilli, un ospizio per vecchi che l’eufemismo casa di riposo non rende meno triste. Quanta arroganza nel giovane che crede di sapere tutto della vita e tratta il proprio padre come fosse un cretino! Dovendo scegliere tra un bambino e un vecchio, nessun dubbio: bello, liscio, roseo, gioioso il bimbo ha davanti a sé tutta la vita e ha diritto a viverla; il vecchio è al capolinea, ha vissuto, ha lavorato, ha costruito il futuro dei suoi figli e dei suoi nipoti, adesso lasci che in casa si recuperi spazio a sufficienza per muoversi, fare, brigare senza dover inciampare in quella sua brandina collocata magari nel bel mezzo del corridoio e vada a godersi il meritato riposo in una RSA (oggi si chiama cosìresidenza sanitaria assistenziale); e se poi le terapie intensive dell'ospedale fossero sature (ricordiamo tutti la recente pandemia Covid 19), il vecchio abbia la gentilezza di farsi da parte e lasci la precedenza ad altri.


L’atto di accusa di Buzzati è contro una società dominata dall’autoreferenzialità (altro simpatico eufemismo che sta per egocentrismo, assenza assoluta di empatia), è contro il cinismo di un mondo in cui produttività ed efficientismo prevalgono sull’umanità e le cose contano più delle persone. Certo Buzzati non immaginava che in un futuro prossimo -il nostro presente- non solo l’intolleranza nei confronti dei vecchi sarebbe aumentata proporzionalmente al loro incremento numerico 
(quanto -ci- costano?), ma la gioventù sarebbe diventata un culto e le rughe, il decadimento, la finitezza quasi una vergogna o una colpa, una sorta di bubbone infetto da nascondere agli altri e persino a se stessi.

Il giovanilismo -in verità piuttosto patetico- di chi in là con gli anni si ostina a voler sembrare giovane ad ogni costo, non è forse il prodotto di una società che culla l’illusione dell’eterna gioventù e nega la finitezza? I vecchi, -improduttivi, fastidiosi, noiosi, ripetitivi, brutti e per giunta numerosissimi; non fanno che mangiare, dormire, lamentarsi e scatarrare- i vecchi, osceni nella loro fragilità, ricordano ciò che si vorrebbe dimenticare: che il tempo scorre inesorabile (trenta o cinquant'anni soltanto, un respiro, un niente!) e che l’uomo è mortale. Un motivo in più per non amarli.

 


Allora, pur senza scomodare Cicerone che all’elogio della vecchiaia come età della saggezza dedicò un’intera opera (De senectute) ci basti ricordare che la vecchiaia è cosa naturalissima
; una seccatura (siamo sinceri) che tuttavia rientra nell'ordine naturale delle cose insieme a molte altre seccature: dunque, accogliamola con la giusta serenità (rassegnazione?) quando giunge per noi, rispettiamola quando è negli altri.

Insomma, accettiamoci per quello che siamo: materia corruttibile. 


Non solo materia...