Letteratura

Un po’ di silenzio!


Tra i molti temi affrontati in Utopia e disincanto, - alcuni di stretta attualità- Claudio Magris dedica qualche pagina al rapporto a quel che sembra tutt’altro che idilliaco tra Montale e Pasolini.

Era il 1975, sulle pagine del Corriere Magris aveva espresso consenso nei confronti di Pasolini e della posizione che aveva assunto sulla questione dell’aborto. Qualche giorno dopo Montale incaricò un’amica comune di recapitargli un bigliettino con la raccomandazione di riferirgli – a voce- che non gradiva sentir pronunciare il nome di Pasolini in nessun caso.
Su quel pezzo di carta c’era scritto il nome del destinatario -Claudio Magris- e due righe più giù il nome del mittente
; in mezzo silenzio, solo una serie di puntini.

Che il mite Montale fosse capace di tanta antipatia nei confronti di qualcuno al punto da non tollerare di udirne il nome è cosa che sorprende. Il punto tuttavia non è questo, fanno riflettere quei puntini: forse che il poeta della parola chiara e diretta, parola in grado di oggettivare il pensiero/il sentimento (correlativo oggettivo) in quella circostanza fosse a corto di parole? È molto improbabile. 

In realtà Montale scelse il silenzio come il modo più sprezzante per esprimere tutta la propria avversione nei confronti di un uomo e di un intellettuale di cui non apprezzava l’esibizione egocentrica e trasgressiva prima ancora che l’opera.

Insomma, i puntini di Montale dimostrano che il silenzio può essere eloquente più delle parole: c’è il silenzio che parla di disprezzo, il silenzio che esprime gioia incontenibile, quello carico di rispetto o commozione, il silenzio che parla d’amore.

A volte i pensieri sono così grandi e il sentire è così forte che, seppur spogli di voce, si fanno udire per se stessi e proprio per la loro grandezza, come il grande silenzio di Aiace nell’Ade, più sublime di qualunque discorso (Trattato sul sublime).


Sono questi i silenzi di chi non ha bisogno di dire.
 
D’altro canto, c’è il silenzio di chi non sa o non può dire perché non ha parole.
Vi sono nella vita esperienze estreme di fronte alle quali manca letteralmente la parola: i sopravvissuti dei lager nazisti hanno sempre mostrato una certa ritrosia (superata in alcuni casi ma a costo di grande sofferenza) a raccontare la loro esperienza: vi sono dolori e orrori inenarrabili, non esistono parole -non tra quelle di uso comune- in grado di esprimerli.

Se il raffronto non rischiasse di risultare azzardato, si sarebbe tentati di accostare il silenzio di chi ha sperimentato l’atroce sofferenza che non si può dire al silenzio del mistico: perché anche il mistico fa esperienza di una realtà che va ben oltre la dimensione fattuale e che perciò non può essere detta (Wittgenstein, Tractatus).


Dice l’indicibile il silenzio dell'arte: immagini, linee, colori, luci, ombre, suoni, volumi, forme, geometrie raccontano ciò che non è possibile a parole, catturano l’ineffabile, così che il blu di una notte stellata (Van Gogh) può parlare di Dio.

 
Spesso il silenzio è funzionale alla comunicazione, esso cioè serve a creare lo spazio
/le condizioni che agevolino l’ascolto e rendano più chiaro il dire: ha bisogno di silenzio l’insegnante che si appresta a tenere una lezione; chi in una conversazione tra amici o nel corso di un dibattito pubblico prende la parola, s’aspetta che l’interlocutore/la platea lo ascolti in silenzio.  

Dal suo canto, il buon oratore sa che l’efficacia del suo discorso dipende non soltanto dall’abilità con cui egli saprà utilizzare le parole, ma anche dai giusti silenziuna pausa al momento opportuno conferirà forza alle parole.

 
Fondamentale il silenzio nel testo scritto che, senza le pause segnate dalla punteggiatura, risulterebbe incomprensibile.


Anche la poesia ha i suoi silenzi: pause, cesure, enjambement, il ritmo che talvolta opportunamente rallenta e infine quegli spazi bianchi che segnano il passaggio da una strofa all’altra.
Sono noti i -non casuali- silenzi di Ungaretti.

C'è il silenzio come spazio per e dell'anima.

È cara a Seneca (Epistulae IV, LVI) la placida quiete in cui, lontani dalla folla e liberata la mente dal ronzio fastidioso delle mille inutili preoccupazioni, si recupera finalmente il contatto con se stessi.

C’è il silenzio del cuore che custodisce amore come in Shakespeare (sonetto 23), ma anche il silenzio angoscioso/carico di mistero raccontato da E A. Poe (Il silenzio, racconto).
C’è il silenzio della notte che rasserena e ritempra, e c’è quello definitivo della morte vagheggiato da Foscolo (Alla sera).
Ci sono i sovrumani eterni silenzi dell’oltre immaginati da Leopardi (L’infinito), ma c’è anche il silenzio colpevolmente omertoso.
Ci sono il silenzio rancoroso di chi non perdona e il silenzio tra chi non si comprende.


 Mille sono i silenzi.


Eppure, il frastuono di questo nostro tempo è insopportabile: strillano le sirene di guerra, ciarlano i social, inveisce l’odiatore.
Nell’assordante cacofonia di voci e rumori, gli ipertoni di una politica che urla e insulta.
Il campionario di insulti urlati dai palchi delle campagne elettorali, immortalati spesso e -molto- volentieri nei post sui social, talvolta gridati persino dagli scranni del Parlamento, è tale da far rabbrividire: si va dall’innocuo -sia pur poco elegante- vaffa, per poi procedere verso le più alte vette dell’ingiuria volgare e/o dell’epiteto infamante.
E che dire del rumore assordante delle parole banali che non tacciono mai? Del brusio odioso del pettegolezzo
/della maldicenza? Delle menzogne urlate come Verità? 

E poi c’è la TV sempre accesa, c’è il traffico sotto casa, c’è l’allarme che suona senza motivo, mentre la coppia del primo piano litiga e il cane guaisce…
 
Il livello dei decibel va ben oltre la soglia dell’umana sopportazione.




Facciamo un po’ di silenzio…




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