Letteratura

Leopardi. Il divenire e il Nulla


Tutto è nulla al mondo, anche la mia disperazione, della quale ogni uomo, anche savio, ma più tranquillo, e io stesso certamente in un’ora più quieta conoscerò la vanità e l’irragionevolezza e l’immaginario. Misero me, è vano, è un nulla anche questo mio dolore, che in un certo tempo passerà e s’annullerà, lasciandomi in un vuoto universale e in un’indolenza terribile che mi farà incapace anche di dolermi. 
Tutto è nulla, le cose che esistono -gli essenti- sono nulla: così scrive Leopardi nei Pensieri (1831).

Ma com’è possibile che ciò che esiste sia nulla? Proprio perché sono/esistono, le cose non possono essere nulla.
Il senso dell’affermazione leopardiana diviene più chiaro nell’ultima parte dell’estratto: tutto è nulla, anche il dolore è vano, perché con il tempo tutto è destinato a passare e ad annullarsi, a diventare un nulla.
Il tema del nulla è strettamente legato a quello del divenire, vale a dire all’idea che, come nel πάντα ῥει di Eraclito, tutto si trasforma e scorre via per sempre.
Pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio ed unico obbietto il morire. Non potendo morire quel che non era, perciò dal nulla scaturirono le cose che sono (…)
Ogni parte dell’universo si affretta infaticabilmente alla morte, con sollecitudine e celerità mirabile. Solo l’universo medesimo apparisce immune dallo scadere e languire: perocché, se nell’autunno e nel verno si dimostra quasi infermo e vecchio, nondimeno sempre alla stagione nuova ringiovanisce. Ma siccome i mortali, se bene in sul primo tempo di ciascun giorno riacquistano alcuna parte di giovanezza, pure invecchiano tutto dì, e finalmente si estinguono; così l’universo, benché nel principio degli anni ringiovanisca, nondimeno continuamente invecchia. Tempo verrà che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro maravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna; parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empiranno lo spazio immenso. 
Cantico del gallo silvestre, da Operette morali, 1824
 

Ogni parte dell’universo corre infaticabilmente verso la propria morte come al suo fine ultimo. 

All’alba del nuovo giorno, l’essere vivente si mostra rinvigorito dal riposo notturno, quasi sembra aver riacquistato parte della sua giovinezza; il cosmo, che in inverno languisce, torna a nuova vita in primavera; eppure ogni cosa, ogni creatura, il cosmo stesso non fanno che invecchiare ad ogni minuto. Cosa rimane degli splendidi regni/imperi del passato, della virtù dei grandi uomini e delle loro opere? Solo un ricordo anch’esso destinato a perdersi

Nessuna cosa è in grado di opporsi al Nulla del divenire: le cose materiali, gli esseri viventi, le infinite vicende e calamità del mondo intero, tutti gli infiniti modi dell’essere sono destinati a perire, e l’universo tutto si spegnerà nel silenzio nudo e nell’altissima quiete del Nulla.

 
Nel Frammento apocrifo di Stratone Da Lampsaco, la riflessione sul destino di morte/sul Nulla di ogni cosa s’approfondisce chiarendosi ulteriormente. 

Le cose materiali, siccome elle periscono tutte ed hanno fine, così tutte ebbero incominciamento. Ma la materia stessa niuno incominciamento ebbe, cioè a dire che ella è per sua propria forza ab eterno. Imperocché se dal vedere che le cose materiali crescono e diminuiscono e all’ultimo si dissolvono, conchiudesí che elle non sono per sé, né ab eterno, ma incominciate e prodotte; per lo contrario, quello che mai non cresce né scema e mai non perisce, si dovrà giudicare che mai non cominciasse e che non provenga da causa alcuna (…) Ora noi veggiamo che la materia non si accresce mai di una eziandio menoma quantità, niuna anco menoma parte della materia si perde, in guisa che essa materia non è sottoposta a perire. Per tanto i diversi modi di essere della materia, i quali si veggono in quelle che noi chiamiamo creature materiali, sono caduchi e passeggeri; ma niun segno di caducità né di mortalità si scopre nella materia universalmente, e però niun segno che ella sia cominciata, né che ad essere le bisognasse o pure le bisogni alcuna causa o forza fuori di sé. Il mondo, cioè l’essere della materia in un cotal modo, è cosa incominciata e caduca (…)
Della origine del mondo, da Frammento apocrifo di Stratone Da Lampsaco
 
Poiché, come si può vedere, le cose materiali crescono, diminuiscono e alla fine si dissolvono, si può dedurre -afferma Leopardi- in primo luogo che esse non sono per sé, esse cioè non sono/non esistono in forza di se stesse (pertanto, non sono necessarie e potrebbero anche non essere); in secondo luogo esse non sono ab eterno, ma sono effimere.
Con la stessa evidenza, la materia si mostra come ciò che non ha causa diversa da sé; inoltre essa non muta, non si accresce, non diminuisce, non perisce. La materia è eterna, essa costituisce quello che per i filosofi greci era l’arché, preesiste ad ogni cosa, è prima degli essenti e ne è all’origine: tutto ciò che è nell’universo e l’universo stesso non sono che particolari/specifici modi di essere della materia.


Le cose dunque nascono dalla materia. Essa, tuttavia,  non agisce in base a forze o ad una Ragione esterne a sé, né in base ad un modello preesistente come in Platone fa il demiurgo che crea guardando alle idee: la materia ha la propria ragione in se stessa. Similmente al bambino, che innalza castelli di sabbia e poi per divertimento e/o per capriccio li distrugge (Palinodia, 1835), la materia agisce mossa da una forza/da un’energia che le è intrinseca e che, agitandola capricciosamente, scuotendola di continuo, la modella fino a formare tutte le innumerevoli creature che, distribuite in generi e specie, si chiamano mondo (Frammento apocrifo di Stratone Da Lampsaco)
 
Poiché la forza della materia opera incessantemente, essa crea e al contempo distrugge senza sosta, così che dalla materia di alcune creature continuamente ne forma delle altre. Eppure, nonostante l’incessante divenire e il perpetuo disfarsi di ogni cosa, la Natura rimane ognor verde (La ginestra): la Natura (che in Leopardi è l’equivalente del greco physis) è come un fuoco sempre vivo che si accende e si spegne ogni volta che la materia crea e distrugge
; proprio l’eterno alternarsi di produzione e distruzione permette il sopraggiungere di cose sempre nuove al posto delle vecchie, di nuovi infiniti universi, -tanti quanti non è possibile congetturare- così che ogni volta la Natura rinverdisce e rifiorisce la Vita.

È per questo che, filosoficamente parlando -conclude Leopardi nel Cantico del gallo silvestre -si può affermare che l’esistenza che non è mai cominciata non avrà mai fine: ci sarà sempre un nuovo inizio e l’inizio non avrà fine.
 


Immortali mortali, mortali immortali, viventi la loro morte e morienti la loro vita: è il frammento 62 di Eraclito, ma potrebbe averlo scritto Leopardi tale è l’affinità di pensiero che lega il filosofo vissuto nel V sec. a. C. al poeta del Nulla.
 
Il pur evidente richiamo alla filosofia antica nulla toglie all’originalità del pensiero leopardiano, a tal punto dirompente nel suo coraggioso nichilismo da anticipare di mezzo secolo la nietzscheana morte di tutti gli dei: non c’è spazio per l’immobile/per l’immutabile; nulla è dato per sempre e l'unico senso è il non-senso di un eterno divenire in cui ciò che accade non ha un fine né un perché…
 

 

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