Letteratura

Iliade. L’infelicità di Achille

 

Diviso in 24 libri e attribuito ad Omero, l’Iliade narra gli ultimi 51 giorni della decennale guerra tra Achei e Troiani.


La vicenda prende avvio dalla terribile pestilenza scatenata da Apollo, che così punisce i Greci per aver rapito Criseide - figlia del sacerdote Crise.
Achille si adopera affinché Criseide, che intanto è tenuta schiava dal re Agamennone, venga restituita al padre e in questo modo sia placata l’ira del dio. Sia pure a malincuore, Agamennone acconsente, ma in cambio reclama per sé Briseide, la schiava di Achille.
Adirato, il Pelide decide che non combatterà più e si ritira nella propria tenda.
Intanto la guerra infuria e le battaglie si susseguono sanguinose.
Indossata l’armatura di Achille, il giovane Patroclo, l’amico di una vita, si getta nella mischia ma è trafitto dall’asta di Ettore.
Infuriato per la morte di Patroclo, Achille affronta il suo assassino, lo uccide e fa scempio del suo cadavere.
Questa molto brevemente la storia: una storia di eroismo e d’infelicità.
 
Tra i personaggi dell’Iliade non ce n’è uno che non soffra, non uno che non soccomba alla violenza del Fato o, talvolta, alle proprie stesse debolezze
/contraddizioni.


Valoroso al pari di Achille, generoso e leale, Ettore è il più infelice dei Troiani: vittima del Fato, che lo vuole guerriero prima ancora che padre e marito, egli 
sa che Troia cadrà, ma combatte con coraggio ogni istante di quella guerra che gli fa orrore; ha la morte nel cuore ogni volta che bacia la moglie Andromaca e stringe al petto il figlioletto Astianatte, perché sa che potrebbe essere l'ultima.

 
Achille, il semidio forte come cento leoni e veloce come un fulmine: anch’egli è infelice.
Figlio della ninfa Teti e del mortale Peleo, Achille non ha la saggezza di Ulisse né il cuore di Ettore. Divorato da ira funesta come da una malattia; irragionevole, insolente, violento, vendicativo, crudele; sempre fuori misura nei sentimenti come nelle azioni; eccessivo nell’amore
(per Briseide, per la madre Teti, per Patroclo) come nell’odio (per  Troia, per Ettore), Achille è vittima delle proprie passioni smodate; tormentato da se stesso prima ancora che dal Fato, egli non ha pace.

 
Assetato di vendetta per la morte dell’amico Patroclo, la compie con animalesca ferocia:
 

Come nel cuor della notte s’avanza tra gli astri la stella
di Espero, che nel cielo è l’astro più bello,
veniva luce così dalla punta aguzza dell’asta, che Achille 

agitava nella sua destra, volendo la morte d’Ettore divino,
scrutando il suo bel corpo, dove più restasse scoperto.
In ogni altra parte gli coprivano il corpo le armi di bronzo,
belle, tolte di forza a Patroclo, dopo averlo ammazzato;
ma restava scoperto dove divide il collo dalle spalle la clavicola,
alla gola, dove la fuga della vita è più rapida:
lì lo colpì Achille divino con l’asta, mentre attaccava,
la punta passò parte a parte, attraverso il tenero collo;
ma il frassino armato di bronzo non tagliò la trachea,
affinché potesse parlargli, rispondendo alle sue parole.
Cadde nella polvere; Achille divino disse trionfante:
«Ettore, forse credevi, mentre toglievi le armi a Patroclo,
di farla franca, non avevi paura di me che ero lontano,
sciocco! Pur lontano da lui, guerriero molto più forte
in riserva alle navi ricurve restavo io,
che t’ho piegato i ginocchi: di te cani ed uccelli
faranno scempio, a lui sepoltura daranno gli Achei»
Stremato gli rispose Ettore dall’elmo ondeggiante:
«Per la vita ti prego, per le ginocchia, per i tuoi genitori,
non lasciare che i cani mi sbranino accanto alle navi degli Achei,
accetta invece a iosa il bronzo e l’oro,
i doni che ti faranno mio padre e la nobile madre,
ma dà indietro il mio corpo alla mia casa, perché con il fuoco
mi onorino, quando sia morto, i Troiani e le loro donne».
A lui, guardandolo storto, disse Achille, veloce nei piedi:
«Non starmi, cane, a pregare per ginocchia e per genitori!
Mi bastassero animo e rabbia a sbranare e divorare
io stesso le tue carni crude, per quello che hai fatto,
come non c’è nessuno che possa al tuo corpo risparmiare i cani,
nemmeno se dieci, se venti volte il riscatto venissero
qui a portarmi, ed altro ancora ne promettessero,
nemmeno se desse ordine di pagarti a peso d’oro
Priamo Dardanide; nemmeno in quel caso la nobile madre
potrà piangerti steso sul letto, lei che t’ha partorito,
ma tutto intero ti mangeranno cani ed uccelli».

 
Iliade, Libro XXII, vv. 317-354 trad. it. di G. Cerri, Rizzoli)
 

Fuori dalle mura di Troia, Ettore si prepara ad affrontare Achille; quando  lo vede, splendente nelle sue armi di bronzo, Ettore fugge terrorizzato.

Assunte le sembianze di Deifobo, fratello di Ettore, la dea Atena gli si accosta e lo esorta a combattere.
Cruento, inizia il duello.
Achille, furioso alla vista delle armi che, appartenute a Patroclo, ora splendono sul corpo di Ettore, affonda l’asta nella gola del nemico; si beffa di lui che stupidamente ha creduto di farla franca quando ha ucciso Patroclo; lo schernisce impietoso quando l’altro, ormai agonizzante, lo supplica di dargli degna sepoltura; si compiace nell’immaginare che quel corpo, le cui carni egli stesso divorerebbe se ne avesse cuore, verrà straziato dai cani che se ne ciberanno.
Poi, strappata dal corpo esanime del nemico l’asta insanguinata, Achille infierisce sul morto e fa scempio del cadavere: pratica due fori ai piedi, vi fa passare delle funi quindi, legato il corpo al carro e spronati i cavalli, trascina il cadavere fin sotto le mura di Troia affinché tutti vedano. Gode del dolore di Priamo, non ha pietà per le lacrime di Andromaca.
 
Eppure, Achille è infelice, la vendetta spegne momentaneamente la rabbia ma non placa l’odio né lenisce il dolore per l’amico che non c’è più: la morte di Ettore non glielo restituirà.


Il poema si avvia alla conclusione con una scena straziante.
Priamo si reca nottetempo presso la tenda di Achille, si inginocchia ai suoi piedi, bacia le sue mani omicide e in lacrime lo supplica di restituirgli il corpo di Ettore:
 
Il grande Priamo entrò non visto, ed avvicinatosi
abbracciò le ginocchia di Achille, baciò le sue mani
tremende, omicide, che a lui tanti figli avevano ucciso.
[…]
Priamo, in atto di supplice, gli rivolse questo discorso:
«Ricordati del padre tuo, Achille pari agli dei,
come me avanti negli anni, sulla soglia triste della vecchiaia:
forse anche a lui danno guai i popoli intorno
accerchiandolo, e non c’è nessuno a stornare da lui la rovina.
Eppure tuo padre, sapendo che tu sei vivo,
gioisce nell’animo suo, e spera di giorno in giorno
di vedere suo figlio tornare da Troia;
infelice davvero sono io, che nella vasta Troia ho generato
figli meravigliosi, e non me ne resta nessuno.
Ne avevo cinquanta, quando arrivarono i figli degli Achei:
diciannove m’erano nati tutti da uno stesso ventre,
gli altri me li partorivano donne diverse nella mia casa.
[…]
e quello che per me era unico, che salvava la città e la gente,
tu proprio adesso l’hai ucciso, mentre combatteva per la patria,
Ettore: ora vengo per lui fino alle navi degli Achei
a riscattarlo da te, e porto un compenso ricchissimo.
Su, Achille, rispetta gli dei ed abbi pietà di me,
nel ricordo di tuo padre: ancora più degno di pietà sono io,
ho sopportato quello che al mondo nessun altro mortale,
di portare la mano alla bocca dell’uccisore di mio figlio».
Disse così, ed in lui stimolò il desiderio di piangere il padre:
allora afferrò la sua mano e scansò dolcemente il vecchio.
Immersi entrambi nel ricordo, l’uno per Ettore massacratore
piangeva a dirotto prostrato ai piedi di Achille,
mentre Achille piangeva suo padre, ma a tratti
anche Patroclo: il loro lamento echeggiava per la casa.
Ma quando il divino Achille fu sazio di pianto,
gli svanì quella voglia dal corpo e dal cuore,
s’alzò di scatto dal seggio, sollevò per la mano il vecchio,
mosso a pietà dalla sua testa bianca, dal suo mento bianco,
e, articolando la voce, gli diceva parole che volano:
«Infelice, molti affanni davvero hai patito in cuor tuo.
Come hai osato recarti da solo alle navi degli Achei,
al cospetto dell’uomo che numerosi e gagliardi
figli t’ha ucciso? Hai un cuore forte come l’acciaio!
Ma su, riposati su questo seggio, ed anche se afflitti,
lasciamo comunque dormire nel cuore i dolori;
dal lamento che ci raggela non viene un guadagno:
gli dei stabilirono questo per gl’infelici mortali,
vivere in mezzo agli affanni; loro invece sono sereni.[…]»

 
Iliade, Libro XXIV, vv 475-521
 
Achille è disorientato, non già dall’ardire del vecchio, che senza scorta si è portato nell’accampamento nemico, Achille è sorpreso di se stesso perché si scopre capace di empatia

Così, mosso a pietà dalla testa bianca di quel vecchio fragile nel corpo ma dal cuore forte come l’acciaio, il semidio Achille umanamente si scioglie in lacrime: piange per Priamo, per il proprio padre che non rivedrà, per Ettore, per Patroclo, per la miseria della condizione umana.
E piange per se stesso, 
per natura condannato ad un’esistenza in ogni istante oltre ogni limite…

 

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