Letteratura

Sotto il nome del plagio. U. Eco


Il saggio di Umberto Eco Quale verità? raccoglie contributi che coprono l’arco di tempo tra il 1969 e il 2013

Ciascun testo si muove intorno al tema che fu centrale nel pensiero dell’autore: quello della verità, o meglio, quello della manipolazione della verità in molti discorsi, da quello dei media a quello dei politici.


Al capitolo intitolato “Sotto il nome del plagio”, U. Eco ricostruisce la vicenda processuale di Aldo Braibanti, scrittore e poeta che, accusato di plagio ai danni dell’amante Giovanni Sanfratello dal padre di quest’ultimo, nel 1964 venne arrestato, processato, dunque condannato a quattro anni di carcere, due dei quali poi condonati.

Il processo fu un caso lampante di manipolazione della verità.

Questi i fatti.

Aldo Braibanti professava opinioni filosofiche che andavano dal panteismo spinoziano al marxismo, tutte idee contrastanti, per vari versi, col sistema di valori diffuso in una società borghese fondata su principi economici liberistici e sull’etica cattolica; era omosessuale; amava comunicare la proprie idee al maggior numero di persone possibile, con acuto senso di proselitismo; ad alcuni proseliti Braibanti proponeva, oltre che le proprie idee, una partnership omosessuale; i suoi proseliti/partners erano restii ad interrompere i rapporti con lui. 

Ora, nulla di tutto ciò costituisce reato per la legge italiana, a meno che gli irretiti non siano minorenni o incapaci di intendere.

Consideriamo -prosegue Eco- la storia e la vita di un altro uomo, che per scelte di vita e comportamenti corrisponde a ben noti personaggi della letteratura decadente, Gabriele Sperelli Des Esseintes: nobile piacentino, uomo bellissimo; amava follemente le donne, attirava fanciulle bellissime nel suo buen retiro promettendo loro di mostrare la sua collezione di preziose formiche cinesi. Offriva loro champagne, le affascinava con sua facondia; recitava loro poesie di Prévert. Esponeva la sua concezione dell’amore come gesto supremo e nobile del superuomo, superiore all’etica da schiavi del piccolo borghese ignorante e presuntuoso. E alla fine, queste Bovary di Fiorenzuola cadevano nel suo talamo.. (U. Eco, Quale verità?, Sotto il nome del plagio).

Sul seduttore incallito appena descritto, nessuno esprimerebbe giudizio particolarmente severo, in fondo egli è uomo che sa godere della vita, chi non desidererebbe poter vivere come lui? Eppure, Gabriele Sperelli è definibile negli stessi termini dell’imputato Braibanti: professava opinioni contrarie all’etica corrente, usava le proprie idee e la propria cultura per affascinare persone che poi possedeva carnalmente, queste stesse persone teneva affettivamente legate a sé per lungo tempo e contro ogni intervento esterno. Dov’è dunque la differenza con l’altro caso? Perché nel primo caso si parlò senz’ombra di dubbio di plagio mentre non se ne ravvede nemmeno l’ombra nel secondo caso? Eterosessualità contro omosessualità, questa la risposta: non scandalizza che una ragazza ceda al bellimbusto profittatore, nessun plagio, ma soltanto naturale attrazione tra i due sessi. Nel primo caso si parlò di plagio perché i soggetti coinvolti erano diversi. Nel corso dell’intero processo e fino alla sentenza, ciò che veramente venne condannato fu la differenza.

A noi la differenza del Braibanti non fa paura. La differenza di chi non sa accettare la differenza, invece, ci preoccupa (ibid)

 

Quando le parole contano più dei fatti


Come si giunse alla condanna di Braibanti?

L’atto criminoso per cui Braibanti è processato essendo il plagio (e cioè una sottile influenza psichica sul plagiato), ogni prova non può che essere induttiva e basata su comportamenti verbali altrui. Infatti, se si dovesse appurare una violenza carnale, esisterebbero le prove fisiologiche della violenza avvenuta; ma poiché in un processo del genere, anche ammettendo una relazione omosessuale tra plagiatore e plagiato, quello che doveva venire appurato non era il contatto sessuale, ma l’atmosfera di soggezione psichica in cui vi ha partecipato il plagiato, questa soggezione può essere indotta o da dichiarazioni o da dichiarazioni di chi ha visto il plagiato (e anche qui si tratta di indurre da un comportamento esterno lo stato interno di soggezione).

Ibid


Poiché non fu possibile esibire prove oggettive che dimostrassero l’avvenuto plagio, proprio per la natura particolare del reato, il processo a carico di Braibanti fu un processo di sole parole, la qual cosa da sola basterebbe a generare qualche perplessità.

A leggere gli atti dell’istruttoria, tuttavia, il semiologo Umberto Eco è colpito innanzitutto dalla qualità delle parole dette: non parole denotative, che dunque indicassero in modo neutro e oggettivo cose, fatti, circostanze evocabili inequivocabilmente proprio da quelle parole e non da altre (esvolpe per indicare quel certo mammifero), ma parole utilizzate in funzione connotativa (es: si dice volpe di un individuo astuto)parole cioè emotivamente caricate di significati altri, soggettivamente riempite di suggestioni/sentimenti, attraversate da giudizi di valore così che servissero ad orientare verso la condanna. Quando ad esempio nel processo si disse che l’imputato seguiva Sanfratello anche in bagno, non si intendeva dire che letteralmente il plagiato veniva seguito fin dentro la toilette, si voleva far passare l’idea che la pressione esercitata da Braibanti sull’amante era tale da privarlo di ogni autonomia, rafforzando così la tesi del plagio.

L’idea di Eco è dunque che l’omosessuale Braibanti fu giudicato colpevole -in quanto omossessuale- per l’uso connotativo di certe parole.

Ma in una società in cui le parole sono usate anzitutto nel loro valore emotivo, gli uomini non sono liberi…

 

Certe parole rendono schiavi

Vi sono valori assunti come assoluti che è scomodo-sconsigliabile sottoporre a critica, così essi sono protettida parole per così dire magiche perché istintivamente connotano positività. Ne consegue che tutte le parole che connotativamente vi si oppongono appaiono alonate di terribile ed empia negatività”.
ibid


Le parole possono essere delle trappole.

Il trinomio Dio, patria e famiglia, slogan propagandistico nel ventennio fascista e oggi mantra recitato unanimemente dalle Destre di tutto il mondo, è esempio eloquente di parole magiche perché di per se stesse connotativamente positive, esse infatti evocano i valori a fondamento della civiltà occidentale: c’è il richiamo alla religione, dunque alla nostra tradizione cristiana, c’è quello alla Patria e dunque all’appartenenza ad una comunità che si riconosce come Nazione, c’è infine la famiglia come il luogo degli affetti più cari. Qualunque parola si opponga a Dio, a patria e a famiglia assume un significato connotativamente negativo, così che una persona malvagia è detta appunto persona senza dio, è un traditore della patria/dei valori della Nazione chi apra ai valori di altre patrie/nazioni, è quantomeno immorale, se non un nemico, chi non si riconosca nella famiglia della tradizione (padre, madre, figli) e scelga di vivere secondo un’altra idea di famiglia (la famiglia gay o la famiglia queer).

Tra le parole-feticcio, popolo è la più abusata della Storia.

Qualunque cosa si intenda per popolo – la moltitudine contrapposta alle élites, l’insieme di cittadini o ancora il popolo come nazione- la parola è potentemente evocativa di emozioni/sentimenti positivi: è puro e genuino il tolstoiano popolo degli ultimi, i cittadini sono il cuore pulsante della polis, è sacro il mazziniano popolo-nazione.  E così, giocando sulla polisemia del termine, tanto le Destre estreme che le Sinistre/le forze politiche progressiste possono parlare al proprio popolo, vale a dire a quella parte di popolo che coincide con il proprio elettorato.

Allo stesso tempo, chi è al potere -il capo/il partito di maggioranza- è legittimato dal popolo che lo ha scelto (in verità, dalla maggiorana, che in alcuni casi è una minoranza, considerato l’astensionismo dilagante), dunque non può che fare il bene del popolo, che solo da lui può aspettarsi prosperità, democrazia, libertà; d'altro canto chi si oppone al capo/a chi governa (la stampa critica, l’intellettuale dissidente) è un traditore del popolo.

Parafrasando Margherita Hack, Dio va benissimo, vanno bene anche la patria e la famiglia, va più che bene il popolo, a patto che non diventino la clava per reprimere il dissenso e condannare la differenza; a condizione dunque che il mio Dio non neghi il dio dell’altro, che in nome della mia patria non si alzino barriere e non si giustifichi l’odio, che la mia famiglia non sia l’unico modello di famiglia possibile e che il popolo non diventi lo strumento attraverso cui far passare qualsiasi menzogna.