Letteratura

Jacopone da Todi, un frate con il senso dell’humor

 

 

Nei primi decenni del Duecento, in Italia centrale s’afferma una poesia religiosa in volgare -la lauda- che ha in Francesco d’Assisi e nel suo Cantico delle creature l’esempio più illustre e nell’opera di Jacopone da Todi l’espressione più originale.

Di carattere battagliero e focoso, Jacopone (1236-1307) è frate francescano a partire dal 1268, a seguito della crisi spirituale originata dalla morte della moglie.


Tra le sue 90 laudi, v’è Quando t’alegri, omo d’altura, componimento non strettamente religioso-devozionale, ma lucida riflessione sulla vita e sulla morte di straordinaria modernità.

Il testo ruota intorno al grottesco dialogo tra un morto e un vivo.



Quando t’alegri, omo d’altura


Quando t'alegri,     omo d'altura,
va' puni mente     a la seppultura;
 
e loco puni     lo to contemplare,
e ppensate bene     che tu dì' tornare
en quella forma     che tu vidi stare
l'omo che iace     en la fossa scura.
 
«Or me respundi,     tu, om seppellito,
che cusì ratto     d'esto monno èi 'scito:
o' so' li be' panni,     de que eri vestito,
cà ornato te veio     de multa bruttura?».
 
«O frate meo,     non me rampugnare,
cà 'l fatto meo     te pòte iovare!
Poi che parenti     me fêro spogliare,
de vil celizio     me dèr copretura».
 
«Or ov'è 'l capo     cusì pettenato?
Con cui t'aregnasti,     che 'l t'à sì pelato?
Fo acqua bullita,     che 'l t'à sì calvato?
Non te ci à opporto     plu spicciatura!».
 
«Questo meo capo,     ch'e' abi sì biondo,
cadut'è la carne     e la danza dentorno;
no 'l me pensava,     quanno era nel mondo!
Cantanno, ad rota     facìa saltatura!».
 
«Or o' so' l'occhi     cusì depurati?
For de lor loco     sì se so' iettati;
credo che vermi     li ss'ò manecati,
de tuo regoglio     non n'àber pagura».
 
«Perduti m'ò l'occhi     con que gìa peccanno,
aguardanno a la gente,     con issi accennando.
Oi me dolente,     or so' nel malanno,
cà 'l corpo è vorato     e l'alma è 'n ardura».
 
«Or uv'è lo naso     c'avì' pro odorare?
Quigna enfertate     el n'à fatto cascare?
Non t'èi potuto     da vermi adiutare,
molt'è abassata     esta tua grossura».
 
«Questo meo naso,     c'abi pro oddore,
caduto m'ène     en multo fetore;
no el me pensava     quann'era enn amore
del mondo falso,     plen de vanura».
 
«Or uv'è la lengua     cotanto tagliente?
….
«Perdut'ho la lengua,     co la qual parlava
e mmolta descordia     con essa ordenava;
…..
«Or o' so' le braccia     con tanta fortezza
menacciando a la gente,     mustranno prodezza?
Raspat'el capo,     se tt'è ascevelezza,
scrulla la danza     e ffa portadura».
 
La mea portadura     se ià' 'n esta fossa;
cadut'è la carne,     remase so' l'ossa
et onne gloria     da me ss'è remossa
e d'onne miseria     'n me à rempletura».
…..
«Or me contempla,     oi omo mundano;
mentr'èi 'n esto mondo,     non essar pur vano!
Pènsate, folle,     che a mmano a mmano
tu sirai messo     en grann'estrettura"
 
Dove sono i begli abiti che gli piaceva sfoggiare quando era in vita? -chiede il vivo al morto- Come mai è calvo? E gli occhi prima così limpidi, dove son finiti
? Le orbite sono vuote! Quale infermità ha fatto cascare il naso? Come mai non c’è più traccia della lingua, qualcuno gliel’ha tagliata? E le labbra? E le braccia un tempo possenti? Perché in lui tutto è solo consunzione e fetore? Non sarà il caso di chiamare i parenti affinché lo aiutino a liberarsi dei vermi che lo stanno divorando?

Il morto risponde che le gambe con cui in vita danzava, gli occhi con i quali ammiccava peccando, il naso con il quale annusava fragranze, la lingua tagliente che creava discordia, la bocca con cui mangiava, le braccia forti che minacciavano, tutto ha disfatto la morte. Si chiamino pure i parenti, non potranno liberarlo dai vermi, ma vedendolo in quello stato capiranno la vanità delle cose terrene e mediteranno sull'ineluttabilità della morte, che di tutti fa cibo per vermi in grann’estrettura (in un loculo).


Infarcito di particolari macabri degni di un horror, il componimento è un invito al rigore morale nella rinuncia al futile, messaggio condivisibile ma non particolarmente originale: in fondo è lo stesso messaggio di Francesco d’Assisi che si spoglia dei propri averi come di un inutile fardello perché nella vita conta altro.

L’originalità di Jacopone è nello stile, nell’attenzione realistica con cui restituisce i dettagli anche più minuti della macabra situazione: indugia sullo scempio della morte quasi con compiacimento, si sofferma sui dettagli più raccapriccianti rendendo la consunzione fetida di quel morto con una precisione tale da permetterci di vedere e di sentire quasi fossimo lì ad osservare la scena. Certo il frate doveva sapere che l'efficacia persuasiva dei fatti, specie se così crudi, è superiore a qualunque predica!

Originale è poi l’humor di Jacopone: alla provocazione del vivo, che lo incalza con divertito e quasi sadico sarcasmo per ottenere risposte che già conosce -Dove son finiti gli occhi? Come mai l’orbita è vuota? E le braccia? E la bocca? ecc.- il morto risponde con desolato imbarazzo, quasi a volersi scusare per essere in quello stato.


                                                                                                                                                                        

Frate davvero sui generis Jacopone da Todi, uomo medievale di carattere e d’azione: all’ascesi di S. Francesco, egli oppone l’attivismo politico guadagnandosi la galera per essersi schierato a fianco dei cardinali Colonna contro Bonifacio VIII, chiedendo fosse resa nulla l’abdicazione di Celestino V (colui che per viltade fece il gran rifiuto lasciando campo libero all’inviso Bonifacio (1); fustigatore inflessibile dei vizi umani, alla parola persuasiva del Santo dei poveri sostituisce lo scudiscio della satira.


La satira di Jacopone da Todi è per certi versi assimilabile al  Dialogo sopra la nobiltà che Giuseppe Parini scriverà cinque secoli più tardi; certo nella lauda di Jacopone è assente -e per ovvie ragioni- l’egualitarismo dell’illuminista milanese, per il quale la morte annulla le differenze e parifica; tuttavia in entrambi il monito è lo stesso come identico è il tono: davvero denaro, potere e futilità di ogni sorta possono costituire lo scopo della vita?


Diamo alle cose la giusta importanza…
 
 
 

(1) Dante, Canto III Inferno, Divina Commedia

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