I sofisti
Nata ad Atene intorno al V sec. a. C. nel periodo della nascente democrazia greca, la Sofistica è una scuola filosofica per molti versi singolare: se Socrate e Paltone si occupano di definire cosa costituisca Virtù e come la si consegua, i sofisti si preoccupano di fornire al demos gli strumenti dialettici per affrontare la vita politica senza esserne inghiottiti.
L’unica virtù per i sofisti coincide con la pratica politica e questa richiede la capacità di esercitare la retorica, vale a dire l’arte di persuadere l’altro della giustezza della propria tesi anche quando non si affermi il vero: d’altronde, nel relativismo dei sofisti, una cosa è in quanto esiste per il soggetto (l’uomo è misura di tutte le cose), dunque poiché non esiste Verità assoluta, il discorso può affermare qualunque cosa purché sia efficace al punto tale da suscitare nell’uditorio-interlocutore la giusta emozione e da orientarlo verso il comportamento desiderato.
Le implicazioni sono tante: la più significativa è la deliberata manipolazione della realtà.
Considerate
queste premesse, si comprende come Platone e specie Aristotele, che vedeva
sovvertite tutte le regole della sua Logica, considerassero il sofista un
falso filosofo e ritenessero il ragionamento sofistico un ragionamento
fallace.
Cosa
sono le fallacie
Le fallacie sono errori di ragionamento che nascono o perché si parte da premesse false o perché si adottano delle inferenze scorrette, oppure perché si adducono a sostegno della propria tesi argomentazioni irrilevanti, poco significative o vaghe. Spesso la fallacia è involontaria, scaturendo da imperizia o disattenzione, in altri casi invece essa è intenzionale perché l’attore del discorso volutamente sceglie le argomentazioni psicologicamente più efficaci e indipendentemente dal loro rigore logico. Per approfondire vai qui.
Le
fallacie nella letteratura
La
letteratura tutta è un enorme serbatoio di fallacie: ragionamenti
bizzarri, sillogismi scorretti o argomenti inconsistenti che spesso hanno
effetto comico, talvolta hanno lo scopo di suscitare la simpatia/la complicità
del lettore nei confronti del tal personaggio, altre volte ancora servono a far
luce sui suoi limiti.
Alcuni
esempi. Don Chisciotte
Il
Don Chisciotte di M. De Cervantes è una storia tutta fondata sul paradosso: il
personaggio protagonista vive in una dimensione altra da quella reale; fattosi cavaliere errante agisce in contrasto con la realtà, vede ciò che altri
non vedono e di conseguenza sragiona. Le sue fallacie nascono dunque
soprattutto dal credere di trovarsi in un romanzo cavalleresco d’altri tempi,
pertanto ogni suo discorso è fallace in quanto non tiene conto della realtà
oggettiva.
Tuttavia,
in molti casi don Chisciotte commette fallacie cosiddette informali,
vale a dire errori di ragionamento in cui chiunque può incorrere per
negligenza, disattenzione o imperizia: in questi casi l’errore sta nel fatto
che gli argomenti addotti a sostegno della tesi non sono rilevanti e/o
significativi per dimostrare la verità di quanto si afferma oppure l’errore è
nella vaghezza dei termini che compaiono in un argomento.
Vedendolo
stare così ritto ritto, il padrone gli disse: “Perchè tu conosca, o Sancio, il
bene che in sé racchiude la cavalleria, e quanto tutti coloro che si esercitano
in questo ministero possano sperare di essere prestamente onorati e stimati nel
mondo, voglio che tu segga qui al fianco mio e in compagnia di questa buona
gente, facendoti una stessa cosa con me, che sono il tuo padrone e il natural
tuo signore; e che mangi nel mio piatto e beva nel mio bicchiere; perchè si può
dire della cavalleria errante ciò che dell’amore, che adegua ogni
diseguaglianza....
Miguel
de Cervantes, Don Chisciotte, vol. I, cap XI
Nel
suo ragionamento Don Chisciotte incorre in una fallacia pseudo-deduttiva: posta
come premessa un’analogia in verità piuttosto forzata tra la cavalleria
errante e l’amore e affermando che l’una come l’altro “annulla le
differenze”, don Chisciotte giunge alla conclusione che a Sancio è consentito
sedere allo stesso desco del suo signore e padrone. Allo stesso modo si
potrebbe sostenere che il cane è come il gatto perché come lui ha quattro
zampe, dunque entrambi corrono alla stessa velocità: in entrambi gli esempi,
partendo dall’analogia tra cose/situazioni solo apparentemente collegate tra
loro sulla base di un elemento comune, se ne fa scaturire la conseguenza che si
vuole.
Nel
suo gradevolissimo libriccino Quando la logica va in vacanza, l’autore
Edoardo Camassa in poche righe del cap. L del Don Chisciotte individua
una serie di fallacie cosiddette informali.
Voi
le dite grosse davvero! sclamò don Chisciotte. E che? i libri che s’imprimono
colla licenza del re e coll’approvazione dei suoi delegati, e che con generale
soddisfazione vengono letti e celebrati dai grandi e dai piccoli, dai poveri e
dai ricchi, dai letterati e dagl’ignoranti, dai plebei e dai nobili, e
finalmente da ogni qualità di persone, qualunque ne sia il loro stato, hanno da
essere bugiardi? E non varrà loro a difenderli quella tanta limpidezza di
verità di cui sono rivestiti, facendoci conoscer il padre, la madre, la patria,
i parenti delle persone, e il tempo e il luogo delle prodezze narrate, punto
per punto, giorno per giorno, secondo che furono eseguite da uno e da più
cavalieri? Taccia vossignoria, nè pronunci sì grosse bestemmie, ma dia retta a
quello a cui la consiglio come prudente; e se si vuol persuadere li legga, e
vedrà quale diletto ne ricaverà.
Miguel
de Cervantes, Don Chisciotte, vol. I, cap. L
Nel
suo discorso in risposta al curato della Mancia, che cerca di fargli
comprendere come proprio la lettura di romanzi cavallereschi l’abbia condotto
alla pazzia, l’hidalgo incappa in ben quattro fallacie (1)
1. c’è l’argumentum
ad verecundiam, fallacia che consiste nel citare una presunta autorità
allo scopo di dimostrare la tesi: i libri cavallereschi sono approvati da re
e da esperti;
2. l’argumentum
ad populum: se una cosa piace a tutti, significa che ha valore;
3. l’argumentum ad consequentiam, fallacia in base alla quale si valuta un atto/un fatto a partire dalle sue conseguenze: leggere romanzi cavallereschi è divertente, dunque...;
4. la
fallacia di ambiguità/equivocazione, fallacia che consiste
nell’utilizzare due volte la stessa parola con due significati
differenti: il termine verità è utilizzato dall'hidalgo in modo che significhi due cose
insieme, vale a dire i romanzi cavallereschi raccontano in modo tale che i
fatti sembrano veri, ma anche i romanzi cavallereschi raccontano cose
vere.
Prescindendo
dal saggio di Camassa, al quale rinvio chi volesse approfondire l’argomento
sulle fallacie letterarie in autori insospettabili come Shakespeare, Galilei o
Voltaire ecc., torniamo al punto.
Un
balzo in avanti di circa un secolo ed ecco Molière con l'Avaro.
Molière, l’Avaro.
Arpagone,
insopportabile spilorcio che vive in funzione del denaro, ha in mente di
sposare la giovane Marianna.
ARPAGONE
-Ma poi c’è un’altra cosa che mi preoccupa. La ragazza è molto giovane: di
solito le ragazze giovani amano i ragazzi giovani. Ho paura che un uomo della
mia età non sia di suo gusto: e che questo possa finire col portarmi in casa
certi piccoli inconvenienti che con il matrimonio potrebbero diventare fatti
grossi, eh….
Molière,
l’Avaro, Atto I, Scena X
Il
ragionamento di Arpagone contiene la fallacia della brutta china -altrimenti
detta del pendio scivoloso o ancora dello slippery slope: essa consiste nell’affermare che un evento specifico -in questo caso il matrimonio con una ragazza di giovane età- debba inevitabilmente determinare una serie di accadimenti tutti ugualmente catastrofici, il che nella realtà potrebbe non accadere.
Manzoni,
i Promessi sposi
Il
manzoniano Don Abbondio che, si sa, non è nato con un cuor di leone ed è
maestro in vittimismo, è sinceramente convinto che il mondo complotti contro di
lui per il sadico piacere di turbare la sua tranquillità: tutti i suoi
ragionamenti ruotano intorno a questa tesi -la qual cosa è già da sola
un’assurdità-, e le argomentazioni a suo supporto appaiono decisamente fallaci.
Tutti
ricordiamo il celeberrimo primo capitolo del romanzo.
Don
Abbondio se va bel bello per la sua strada, quando è placcato dai bravi di don
Rodrigo che gli intimano di annullare le nozze tra Renzo e Lucia: quel
matrimonio non s’ha da fare perché questo è il volere del prepotente
signorotto spagnolo.
“Lei ha intenzione,” proseguì l’altro,
con l’atto minaccioso e iracondo di chi coglie un suo inferiore
sull’intraprendere una ribalderia, “lei ha intenzione di maritar domani Renzo
Tramaglino e Lucia Mondella!”
“Cioè...” rispose, con voce tremolante,
don Abbondio: “cioè. Lor signori son uomini di mondo, e sanno benissimo come
vanno queste faccende. Il povero curato non c’entra: fanno i loro pasticci tra
loro, e poi... e poi, vengon da noi, come s’anderebbe a un banco a riscotere; e
noi... noi siamo i servitori del comune.”
A. Manzoni, Promessi sposi, cap. I
Nel
maldestro tentativo di sottrarsi a quella situazione e di dimostrare che non ha
colpe, don Abbondio sragiona: lui non c’entra, la colpa è tutta dei ragazzi che
prima combinano i loro pasticci e poi da lui pretendono la soluzione.
“Cioè...” rispose, con voce tremolante, don Abbondio: “cioè. Lor signori son uomini di mondo, e sanno benissimo come vanno queste faccende. Il povero curato non c’entra: fanno i loro pasticci tra loro, e poi... e poi, vengon da noi, come s’anderebbe a un banco a riscotere; e noi... noi siamo i servitori del comune.”
L’argomentare di don Abbondio è doppiamente fallace: da
una parte, spostando i termini della questione, attribuisce arbitrariamente ad
altro la causa di quanto accade (i pasticci di Renzo e Lucia, ma quali pasticci?); dall’altra
c’è la fallacia ad misericordiam, vale a dire il tentativo di cavarsi
d’impiccio facendo appello alla pietà altrui (don Rodrigo e i bravi abbiano
comprensione per lui che in tutta quella storia è vittima innocente).
La fallacia ad misericordiam ricorre costantemente nei ragionamenti di don Abbondio, d’altronde il piagnisteo è nella sua indole.
Indimenticabile il colloquio del curato
con Federigo Borromeo nel XXVI capitolo.
Allora don Abbondio si mise a raccontare
la dolorosa storia; ma tacque il nome principale, e vi sostituì: un gran signore; dando così alla prudenza tutto quel
poco che si poteva, in una tale stretta.
“E non avete avuto altro motivo?” domandò
il cardinale, quando don Abbondio ebbe finito.
“Ma forse non mi sono spiegato
abbastanza,” rispose questo: “sotto pena della vita, m’hanno intimato di non
far quel matrimonio.”
“E vi par codesta una ragion bastante,
per lasciar d’adempire un dovere preciso?”
“Io ho sempre cercato di farlo, il mio
dovere, anche con mio grave incomodo, ma quando si tratta della vita...”
A. Manzoni, Promessi sposi, cap XXVI
Alla riprensione da parte del Cardinale,
che gli chiede conto del motivo per il quale si sia sottratto al suo dovere, don
Abbondio risponde tirando in ballo la fallacia della falsa dicotomia: egli
non aveva scelta, o obbedire a don Rodrigo avendo così salva la vita o disobbedire
e morire. In realtà la questione sta in termini diversi: don Abbondio dimentica
-finge di dimenticare- che tra l’obbedienza acquiescente e l’eroico sacrificio aveva
a disposizione la più ragionevole possibilità di rivolgersi ai propri superiori
affinché garantissero giustizia preservando al contempo la sua incolumità.
“E non avete avuto altro motivo?” domandò il cardinale, quando don Abbondio ebbe finito.
“Ma forse non mi sono spiegato abbastanza,” rispose questo: “sotto pena della vita, m’hanno intimato di non far quel matrimonio.”
“E vi par codesta una ragion bastante, per lasciar d’adempire un dovere preciso?”
“Io ho sempre cercato di farlo, il mio dovere, anche con mio grave incomodo, ma quando si tratta della vita...”
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