Quando nel Dicembre del 2022 il deputato di Fdi e vicepresidente della Camera Fabio Rampelli presentò la proposta di legge sull’obbligo di utilizzare la lingua italiana nelle aziende e nel settore pubblico -evitando dunque parole straniere- pena multe salatissime, il pensiero di molti andò all’autarchia linguistica di fascista memoria.
L’intervento
del regime fascista sulla lingua italiana nel Ventennio, si sa, fu pesantissimo
e coinvolse ogni ambito della vita sociale/pubblica: la scuola, lo sport, la comunicazione -cinema,
radio, giornali- le associazioni giovanili.
Il Fascismo non combatté
solo le parole straniere, se la prese anche con i dialetti, che intaccavano la purezza dell’idioma patrio alimentando
pericolose spinte regionalistiche, e represse duramente le minoranze linguistiche (del Trentino o
della Venezia-Giulia) che subirono un’italianizzazione forzata a cominciare dall’obbligo
dell’insegnamento della sola lingua italiana nelle scuole.
Come l’autarchia economica,
l’autarchia linguistica fascista intendeva isolare l’Italia rendendola
impermeabile a qualunque influsso esterno ed emancipandola da ogni (vera o presunta) forma di
servilismo.
Tra
l’ottusità dell’autarchia linguistico-culturale che si chiude a riccio e l’attuale
grossolana esterofilia c’è la via del buon senso indicata da Camilleri su Repubblica.
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Piccola digressione. Il provincialismo italiano,
antico nostro vizio, ha due forme. Una è l’esaltazione della provincia come
centro dell’universo. E valgano i primi due versi di una poesia di Malaparte,
«Val più un rutto del tuo pievano / che l’America e la sua boria. [...] L’altra
forma è quella di credersi e di dimostrarsi non provinciali privilegiando
aprioristicamente tutto ciò che non è italiano. Quante volte ho sentito la
frase: «io non leggo romanzi italiani» o più frequentemente, «io non vado a
vedere film italiani». Finita la digressione. Se poi si passa dalla politica al
vivere quotidiano, l’invasione anglosassone appare tanto estesa da rendersi
pericolosa. Provatevi a saltare da un canale televisivo all’altro (mi sono ben
guardato dal dire «fare zapping»), vedrete che il novanta per cento dei titoli
dei film o addirittura di alcune rubriche, sono in inglese. La stessa lingua
parlano le riviste italiane di moda, di architettura, di tecniche varie. I
discorsi della gente comune che capti per strada e persino al mercato sono
spesso infarciti di parole straniere. In quasi tutta la strumentistica prodotta
in Italia i sistemi di funzionamento sono identificati con parole inglesi. [...] A questo punto non vorrei che si cadesse in un
equivoco e mi si scambiasse per un sostenitore dell’autarchia della lingua di
fascistica memoria. [...] Se comincia a morire la nostra lingua, è la
nostra stessa identità nazionale che viene messa in pericolo. È stata la lingua
italiana, non dimentichiamolo mai, prima ancora della volontà politica e della
necessità storica, a darci il senso dell’appartenenza, del comun sentire. Nella
biblioteca di un mio bisnonno, vissuto nel più profondo sud borbonico, c’erano
La Divina commedia, l’Orlando furioso e i Promessi sposi tutti in edizione
pre-unitaria. È stata quella lingua a farlo sentire italiano prima assai di
poterlo diventare a tutti gli effetti.
A.
Camilleri, Non definitemi
un autarchico, Repubblica 2012
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