Letteratura

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Platone. Lachete, dialogo sul coraggio

 


Nato ad Atene nel 427 a.C. in una famiglia dell’alta nobiltà, per tutta la vita Platone coltivò il sogno di una società ispirata alle idee di Giustizia e di Bene che non riconosceva in nessuna forma politica esistente: certo non nel sanguinario governo dei Trenta tiranni -istituito da Sparta ad Atene dopo la fratricida guerra del Peloponneso-  né nella restaurata repubblica che in nome dei valori tradizionali aveva condannato per empietà e mandato a morte l’uomo più giusto al mondo, Socrate.


Il sogno di una società a misura d’uomo sembrò sul punto di concretizzarsi quando, all’età di 40 anni circa, Platone conobbe il tiranno di Siracusa Dionisio che, grazie anche all’intervento dell’illuminato cognato Dione, si lasciò convincere a tentare in Sicilia una sorta di sperimentazione di quello Stato giusto che il filosofo aveva in mente.
Il progetto fallì e Platone tornò in Grecia dove, fondata l’Accademia nel 387 a.C., rimase fino alla morte avvenuta all’età di 80 anni nel 347 a.C.


Platone affidò il suo pensiero a 36 opere: l’Apologia di Socrate, opera scritta in gioventù che ricostruisce il processo a Socrate; le Lettere, raccolta di tredici epistole; e quei 34 Dialoghi che gli studiosi, partendo da considerazioni sui contenuti e sull’evoluzione dello stile, hanno suddiviso in tre gruppi -dialoghi della giovinezza, della maturità, della vecchiaia-.


Mentre nei Dialoghi della maturità si fa spazio la metafisica delle idee che è il cuore della filosofia di Platone, i Dialoghi della giovinezza sono una riflessione sulla filosofia e sulla figura di Socrate, che Platone intende riabilitare agli occhi dei tanti detrattori: nei Dialoghi Platone non compare mai e per lui parla Socrate che interroga i propri interlocutori su concetti morali come la pietà, la temperanza, la virtù…
 

Lachete

 
Il dialogo Lachete verte sulla definizione di coraggio e sul rapporto che esso ha con la Virtù.


I nobili Lisimaco e Melesia, preoccupati per l’educazione dei propri figli, si rivolgono ai due generali Lachete e Nicia per ottenerne consiglio sull’opportunità di avviare i ragazzi all’uso delle armi.
Nella discussione è coinvolto Socrate che a sua volta interroga i generali per verificare che abbiano sufficiente competenza in materia di virtù e dunque siano effettivamente in grado di dare consigli sull’educazione dei giovani.

Interrogati su cosa debba intendersi per coraggio, Lachete e Nicia sono in difficoltà.
 
Socrate. Cerchiamo allora in primo luogo, Lachete, di dire che cos’è il coraggio…
Lachete. Per Zeus, Socrate, non è difficile dirlo: se uno è disposto a difendersi dai nemici rimanendo al proprio posto, senza fuggire, sappi che egli è coraggioso.
Socrate. Dici bene, Lachete. Ma forse io, non avendo parlato chiaramente, sono colpevole che tu abbia risposto non alla domanda che pensavo, ma ad altro.
Lachete Che cosa vuoi dire, Socrate?
Socrate. Te lo dirò, se ne sono capace. Certo è coraggioso costui, che tu dici, il quale, rimanendo al proprio posto, combatte contro i nemici.
Lachete Sì, lo dico.
Socrate Anch’io. Ma colui che combatte i nemici indietreggiando invece di rimanere fermo?
Lachete. Come indietreggiando?
Socrate. Come si racconta che combattano gli Sciti indietreggiando non meno che inseguendo; e Omero lodando i cavalli di Enea dice che essi «velocemente qua e là» sapevano «inseguire e fuggire» ed elogiò lo stesso Enea per questa stessa cosa, per la sua scienza della fuga, e disse che era «un maestro della fuga»
Lachete. E giustamente, Socrate, perché parlava di carri. E tu parli di cavalieri Sciti: la cavalleria combatte così, ma la fanteria come dico io.
Socrate. Eccetto, forse, quella dei Lacedemoni, Lachete, perché raccontano che i Lacedemoni, a Platea, quando furono davanti ai gerrofori, non vollero combattere contro di loro rimanendo fermi, ma fuggirono e, quando le schiere dei Persiani si sciolsero, come cavalieri si rivoltarono a combattere e così vinsero quella battaglia.
Lachete È vero.
[…]
Socrate. Nicia, vieni in aiuto ad amici in difficoltà, colti dalla tempesta nella discussione, se hai qualche possibilità. Vedi come le nostre difficoltà sono forti. Ma tu, dicendo che cos’è il coraggio secondo te, liberaci dalla difficoltà …
[...]
Nicia. Spesso ti ho sentito dire che ciascuno di noi è buono nelle cose in cui è sapiente e cattivo in quelle in cui è ignorante.
Socrate. È vero, per Zeus, Nicia.
Nicia. Dunque, se il coraggioso è buono, evidentemente è sapiente.
Socrate. Hai sentito, Lachete?
Lachete Sì, ma non capisco bene ciò che vuol dire.
Socrate. Io credo di capire: mi pare che per coraggio intenda una certa sapienza.
Lachete. Quale sapienza, Socrate?
[...]
Socrate. Allora, Nicia, digli quale sapienza è il coraggio, secondo il tuo discorso. Certo. non è la flautistica.
Nicia. In nessun modo.
Socrate E neppure la citaristica.
Nicia. No certo.
Socrate. Allora che scienza è e di che cosa?
[...]
Nicia. Questa, Lachete: è la scienza delle cose temibili e rassicuranti, in guerra e in ogni altro caso.
[...]
Socrate. Nicia, rispondici nuovamente da principio: sai che all’inizio del discorso esaminavamo il coraggio, considerandolo come una parte della virtù?
Nicia. Certo.
Socrate. E anche tu hai risposto come se fosse una parte tra altre parti, che tutte insieme sono chiamate virtù?
Nicia. Come no?
Socrate. Dici anche tu le parti che dico io? Io dico, oltre al coraggio, la temperanza la giustizia e altre simili. Tu no?
Nicia. Sì, certo.
Socrate. Fermati allora. Questo l’abbiamo ammesso, ma a proposito delle cose temibili e di quelle rassicuranti badiamo che tu non le consideri una cosa e noi un’altra. Noi ti diremo ciò che le consideriamo; tu, se non sei d’accordo, c’insegnerai. Noi consideriamo temibili le cose che procurano timore e rassicuranti quelle che non lo procurano e procurano timore non i mali passati né quelli presenti, ma quelli attesi, perché il timore è attesa di un male futuro. Non pare così anche a te, Lachete?
Lachete. Proprio così, Socrate.
Socrate. Tu senti, Nicia, la nostra affermazione che chiamiamo temibili i mali futuri e rassicuranti le cose che non saranno mali o saranno beni. Su questo, dici così o altrimenti?
Nicia. Così.
Socrate. E la scienza di queste cose la chiami coraggio?
Nicia. Esattamente.
Socrate. Esaminiamo ancora un terzo punto, se tu e noi lo condividiamo.
Nicia. Quale?
Socrate. Te lo dirò. A me e a Lachete pare che per le cose su cui c’è scienza, non ci sia una scienza del passato per sapere come è avvenuto, un’altra del presente come avviene e un’altra su come può avvenire nel modo migliore e avverrà ciò che non è ancora avvenuto, ma ci sia la stessa scienza. Per esempio, a proposito della sanità, per tutti i tempi non c’è che la medicina, che è unica e osserva ciò che avviene, ciò che è avvenuto e ciò che avverrà come avverrà.
[...]
Socrate. E tu, Nicia, affermi con noi che, a proposito delle stesse cose, la medesima scienza è competente delle future, presenti e passate?
Nicia. Sì, a me pare così, Socrate.
Socrate. Carissimo, il coraggio, come affermi tu, è scienza delle cose temibili e di quelle rassicuranti. Non è così?
Nicia. Sì.
Socrate. Ma si è ammesso che le cose temibili e quelle rassicuranti sono rispettivamente i mali futuri e i beni futuri.
Nicia. Certo.
Socrate. E la stessa scienza è delle stesse cose, future e di ogni altro tempo.
Nicia. È così.
Socrate. Il coraggio, dunque, non è solo scienza delle cose temibili e di quelle rassicuranti, perché è competente non solo sui beni e sui mali futuri, ma anche su quelli presenti, passati e di ogni tempo, come le altre scienze.
Nicia. Sembra.
Socrate. Allora, Nicia, tu ci hai detto che cosa è un terzo, circa, del coraggio; ma noi ti chiedevamo che cosa fosse il coraggio intero. Ora, a quanto sembra, stando al tuo discorso, il coraggio non solo è scienza delle cose temibili e di quelle rassicuranti, ma pressappoco è la scienza di tutti i beni e di tutti i mali di ogni tempo (tale è ora la tua definizione). Dichiari di mutare così la definizione o come, Nicia?
Nicia. A me pare così, Socrate.
Socrate. E ti pare, divino amico, che un uomo mancherebbe di una parte della virtù, se conoscesse tutti i beni in ogni tempo, come avvengono, avverranno e sono avvenuti e allo stesso modo i mali? Credi che costui mancherebbe di temperanza, giustizia o santità, egli a cui solo spetta, riguardo agli dèi e agli uomini, guardarsi dalle cose temibili e da quelle che non lo sono e procurarsi i beni, sapendo comportarsi correttamente con essi?
Nicia. Mi pare che tu abbia ragione, Socrate.
Socrate. Allora, Nicia, non è una parte della virtù ciò che ora hai detto, ma la virtù intera.
Nicia. Sembra.
Socrate. Eppure dicevamo che il coraggio è solo una delle parti della virtù.
Nicia. Lo dicevamo.
Socrate. Ma ciò che ora si è detto non sembra tale.
Nicia. Non sembra.
Socrate. Dunque, Nicia, non abbiamo trovato che cos’è il coraggio.
Nicia. Pare di no
Platone, da Dialoghi, Lachete
 
Uomo d’azione che ha dimestichezza con i campi di battaglia, Lachete non sembra avere dubbi: c’è coraggio quando si affronta il nemico rimanendo fermi al proprio posto

Ha gioco facile Socrate nel dimostrare che il ragionamento di Lachete è fallace: se ci si limita a considerare il coraggio sul campo di battaglia -e non anche quello che serve per affrontare le difficoltà della vita- vi sono situazioni in cui non solo non è possibile rimanere fermi combattendo, -per esempio la cavalleria deve necessariamente muoversi-, ma talvolta combattere indietreggiando è scelta tattica fruttuosa, come accadde per la fanteria spartana quando affrontò i Persiani.
 
Nella discussione subentra Nicia la cui definizione di coraggio risulta contraddittoria: muovendo dalla premessa che ciascuno è buono nelle cose in cui è sapiente e cattivo in quelle in cui è ignorante, egli approda alla conclusione che il coraggio è una certa sapienza, in particolare esso è la scienza delle cose temibili e rassicuranti. Tuttavia, fa notare Socrate, è possibile temere solo mali futuri e auspicare solo beni futuri -il passato e il presente essendo immodificabili - mentre la scienza è per definizione conoscenza allo stesso modo del passato, del presente e del futuro. Se, correggendo il tiro, si ammette allora che il coraggio sta nella sapienza-scienza su passato, presente e futuro insieme, allora il coraggio coincide con l'intera Virtù-Sapienza e ciò è in contraddizione con quanto si era affermato nella premessa, secondo la quale il coraggio è solo una parte della virtù insieme a temperanza, giustizia ed altro. 


Dunque, cosa sia il coraggio non è chiaro.


Il Dialogo si conclude così con un’aporia, vale a dire senza aver trovato l’oggetto che si cercava: una conclusione del tutto coerente con la socratica consapevolezza che conoscere è percorso lungo e faticoso verso verità talvolta solo parziali...