Più di duemila anni ci
separano da Seneca, l’uomo stoicamente libero dalle passioni che governò la
sorte e morì suicida con socratica serenità.
Eppure, per quel suo
filosofare, una sorta di umanesimo ante litteram che al centro di ogni
cosa colloca l’uomo e la dignità che è nell’esistenza secondo Ragione, il
filosofo vissuto nel I sec. d. C. ha ancora molto da dirci.
Non saremmo tutti più
felici se imparassimo a vivere bene? E non vivremmo tutti meglio
se cominciassimo a gestire il tempo così da non esserne fagocitati?
Siamo maestri nello sprecare il tempo, sempre inutilmente indaffarati a rincorrere ciò che non serve ma crediamo indispensabile: c’è chi solca mari e attraversa terre alla ricerca di ricchezze; altri annegano il loro tempo nell’alcol; alcuni buttano via il presente rimpiangendo il passato o sognando il futuro; altri ancora, schierati in eserciti, combattono guerre per difendere ridicoli confini o conquistare insulsi regni. (cfr, Naturales quaestiones)
Ci lamentiamo di avere poco tempo e malediciamo la Natura che ci ha generati per farci vivere solo un istante. In realtà “Non exiguum temporis habemus, sed multum perdidimus”: non abbiamo poco tempo, ne sprechiamo molto (De brevitate vitae) e la vita è lunga abbastanza per permettere grandi cose se l’anima è libera dalle catene della futilità.
E allora, occorrerebbe riuscire a riappropriarsi di sé (“vindica te tibi”) e, secondo il monito “Recede in te ipsum” (ritirati in te stesso) che nell’Epistolario a Lucillo è condizione per giungere alla saggezza, dovremmo imparare a vivere il tempo diverso che nutre l’anima, promuove la riflessione, coltiva la Ragione.
Occorrerebbe vivere la vita riempiendo di senso ogni suo istante così che, quando arriverà, la morte non ci colga impreparati né disperati.
Vivere
tota vita discendum est et, quod magis fortasse miraberis, tota vita discendum
est mori (De brevitate vitae).
Per imparare a vivere è necessaria la vita intera, ma imparare a vivere permette di imparare a morire.
Sa ben morire solo chi ha ben vissuto. La morte, Seneca lo afferma con forza, non è che la naturale conclusione del viaggio sulla terra: essa terrorizza lo stolto, che nella vita ha sprecato tempo ed energie perseguendo il nulla, non la teme il saggio che ha vissuto individuando le giuste priorità e per questo morrà sereno.
Quid
enim supra eum potest esse qui supra fortunam est? (De brevitate vitae
Cosa c’è di superiore a colui che è
superiore alla sorte?
Integro e moralmente saldo, libero dalle futili passioni che ottundono la mente, padrone di sé pur nelle avversità o di fronte alla morte, il saggio è potente
come un dio e come un dio domina la sorte.
Tuttavia, si potrebbe obiettare: se la saggezza/felicità sta nell’autosufficienza (autàrkeia) di chi basta a se stesso e nell’ impassibilità (apàtheia) della vita contemplativa lontana dalle passioni, la strada indicata da Seneca è quella del solipsismo che esclude il mondo e rifiuta l’impegno.
Non
è così.
«Il
saggio basta a se stesso.» Ma, o mio Lucilio, i più intendono male quest’espressione
e tengono il saggio lontano da ogni attività, imprigionandolo entro la sua
pelle. Bisogna dunque spiegare il significato e l’estensione di queste parole:
il saggio basta a se stesso per vivere felice, non per vivere. Per vivere,
infatti, ha bisogno di molte cose; per la felicità
solo di un animo retto, coraggioso e noncurante della fortuna.
L.A.
Seneca, Lettere a Lucilio, Milano, Rizzoli, 1989, vol. 1
Il
saggio non è un misantropo chiuso nella gabbia della propria pelle; non prescinde
dall’altro uomo né dalla collettività di cui è parte, anzi egli cerca di «giovare
agli uomini» (prodesse hominibus, da De tranquillitate animi);
tuttavia, sa che per vivere felici occorre riuscire a calibrare opportunamente impegno e disimpegno, vita attiva e otium, pertanto quando la
partecipazione alla vita collettiva e/o il rapporto con gli altri mettano a
rischio l’autonomia di giudizio, la libertà, la dignità; quando la violenza dell'iniuria (la pratica dell'insulto che genera odio, cfr De ira) avvelena la vita pubblica/politica, il saggio si ritira e si sceglie libero.
Allo stesso modo e per gli stessi motivi il saggio rifugge dalla folla che cieca e irrazionale può abbandonarsi alle peggiori nefandezze, ma ama l'umanità -per la quale auspica il riscatto attraverso la Virtù- e coltiva l’amicizia come un bene prezioso.
A più di duemila anni da Seneca, il suo monito riecheggia forte...
Quale alternativa alla futilità se non la via della Ragione? Quale libertà se non innanzitutto quella dall’odio, dall'egoismo, dall'arroganza? Nel nostro tempo vuoto di senso, quale tempo se non quello dell’anima e della mente? C'è ricchezza che eguagli la dignità e il rispetto di sé?
Esiste altro antidoto alla paura della morte se non l’accettazione serena della propria finitezza?...
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