Letteratura

Nobiltà e uguaglianza secondo Seneca


L’idea che la nobiltà di sangue non determini virtù e che dunque la vera nobiltà sia quella dell’animo comincia a farsi strada, e faticosamente,  sul finire del Medioevo (basti leggere qualche pagina del Convivio di Dante o del Decameron di Boccaccio), per affermarsi solo più tardi unitamente all’idea che tutti gli uomini nascono uguali.


Eppure già nel I sec. d. C. “Ogni re discende da schiavi ed ogni schiavo da re” scriveva Seneca parafrasando Platone nell’Epistola 44, il che non è poca cosa considerato che il mondo – che allora coincideva nella sua quasi totalità con l’impero romano- era quello che era, i nobili erano tutti necessariamente belli e buoni, la loro superiorità morale e intellettuale geneticamente garantita, mentre tutti gli altri costituivano feccia guidata dai peggiori istinti.


Iterum tu mihi te pusillum facis et dicis malignius tecum egisse naturam prius, deinde fortunam, cum possis eximere te vulgo et ad felicitatem hominum maximam emergere. Siquid est aliud in philosophia boni, hoc est, quod stemma non inspicit […] Patricius Socrates non fuit; Cleanthes aquam traxit et rigando horto locavit manus; Platonem non accepit nobilem philosophia sed fecit: quid est quare desperes his te posse fieri parem? Omnes hi maiores tui sunt, si te illis geris dignum; geres autem, si hoc protinus tibi ipse persuaseris, a nullo te nobilitate superari. […] Platon ait neminem regem non ex servis esse oriundum, neminem non servum ex regibus. Omnia ista longa varietas miscuit et sursum deorsum fortuna versavit. Quis est generosus? ad virtutem bene a natura compositus. Hoc unum intuendum est: alioquin si ad vetera revocas, nemo non inde est ante quod nihil est. A primo mundi ortu usque in hoc tempus perduxit nos ex splendidis sordidisque alternata series. Non facit nobilem atrium plenum fumosis imaginibus; nemo in nostram gloriam vixit nec quod ante nos fuit nostrum est: animus facit nobilem, cui ex qua) cumque condicione supra fortunam licet surgere. […]
Seneca, Epistula ad Lucilium XLIV
 

L'amico Lucilio si sente piccolo piccolo a causa delle proprie umili origini, ma sbaglia a vergognarsene: lo status sociale di un individuo dipende esclusivamente dalla sorte/Fortuna, nessuno sceglie dove nascere. 
D’altra parte, l'alternarsi incessante degli eventi ha mescolato nel tempo tutte le condizioni sociali, la Fortuna si è divertita a rivoltarle sotto sopra al punto che chi oggi è schiavo potrebbe discendere da un re come non si può escludere che il nobile discenda dallo schiavo. 
L'unica nobiltà che conti e che resista ai rivolgimenti della sorte è quella del cuore. Lucilio, dunque, metta da parte le sue insicurezze; indipendentemente dalle proprie origini, egli ha la possibilità di elevarsi al di sopra di ogni altro uomo se coltiva la filosofia e giunge alla virtù: erano forse nati nobili Socrate o Platone

 

La virtù annulla le differenze sociali

A condizione che lo voglia, chiunque può giungere alla virtù: essa non guarda al genere o al censo, non si cura del blasone, la virtù si apre a chiunque, accontentandosi che sia semplicemente uomo (nudo homine contenta est).

Ed è uomo al pari degli altri lo schiavo: dalla sorte egli è stato collocato tra gli ultimi, ma è nato dallo stesso seme, gode dello stesso cielo, respira, vive, muore esattamente come tutti. Per giunta, poiché la sorte, si sa, è capricciosa e i rivolgimenti della Storia possono essere radicali, tutto ciò che è può mutare: lo schiavo potrebbe arricchirsi diventando padrone, il padrone che oggi ambiziosamente aspira alla carica di senatore potrebbe ritrovarsi a pascolare il gregge o come guardiano di una casa. (cfr, Epistola 47).

 
Lo schiavo, che dunque è tale non per natura ma perché questo gli è toccato in sorte, può essere nobile più dei nobili se il suo animo è buono e corretto è il suo agire.


Libenter ex iis qui a te veniunt cognovi familiariter te cum servis tuis vivere: hoc prudentiam tuam, hoc eruditionem decet. 'Servi sunt.' Immo homines. 'Servi sunt ' Immo contubernales. 'Servi sunt.' Immo humiles amici. 'Servi sunt.' Immo conservi, si cogitaveris tantundem in utrosque licere fortunae.

(Epistola 47)


Seneca apprende con piacere che l’amico Lucilio s’intrattiene familiarmente con i propri schiavi, uomini come tutti, compagni di vita, umili amici non più schiavi di quanto non lo siano tutti gli esseri umani, tutti ugualmente alla mercé della Fortuna.

E allora, Lucilio non si curi di quanti considerano disdicevole cenare col proprio schiavo: cosa lo rende differente dal suo padrone se non un destino avverso? In piedi mentre il suo padrone gozzoviglia, lo schiavo deterge i suoi sputi, raccoglie le briciole, dispensa vini agghindato come una donna, serve restando sempre muto perché non gli è consentito parlare; persino un suo bisbiglio, un colpo di tosse, un singhiozzo, un rumore fortuito e involontario sono repressi a forza di bastonate. 

Coloro che considerano una menomazione della propria superiorità sedere alla stessa mensa con il proprio schiavo, sono dei poveri di spirito incapaci di guardare oltre ciò che appare; cercano amici nel foro o nella curia come se lì soltanto vi fossero persone onorate, ma se si guardassero intorno senza pregiudizi, s’accorgerebbero che ve ne sono tra i propri schiavi perché la nobiltà d’animo prescinde dalla condizione sociale.


Quemadmodum stultus est qui equum empturusnon ipsum inspicit sed stratum eius ac frenos, sic stultissimus est qui hominem aut ex veste aut ex condicione, quae vestis modo nobis circumdata est, aestimat. 

 Ibid

Lucilio non sbaglia ad intrattenersi amichevolmente con i propri schiavi, egli ha compreso che in un uomo conta l’anima soltanto.

Quanto agli altri, quelli che valutano gli uomini non per ciò che sono ma in base alla classe sociale di provenienza, al loro mestiere, a ciò che indossano, la loro stupidità è pari a quella di chi, acquistando un cavallo si limita a considerane solo la sella e le briglie… nient'altro che ornamenti.
 
 

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